Esclusiva

Giugno 25 2025
Sara Vargetto, un’atleta per il Papa

Portabandiera di atletica vaticana e campionessa italiana indoor: «Tante persone avrebbero mollato. Lei non ci ha mai neanche pensato», racconta il padre

L’eredità sportiva di Papa Francesco è custodita da una ragazza 16enne di Castelli Romani: una bandiera bianca e gialla, da sventolare a ogni gara. Sara Vargetto se lo ricorda ancora quell’abbraccio, un’udienza ufficiale diventata un momento privato. Una benedizione. «Mi nominò portabandiera di Atletica Vaticana», racconta mentre indica una foto incorniciata. «Nonna e zia mi accompagnarono e scoppiarono a piangere. Fu lui a volermi abbracciare, ci rendiamo conto?». Ora quei colori sfrecciano con lei e la sua carrozzina rosa glitter, decorata da una farfalla sfavillante. 

Le ali, però, sono sue. Sara aveva appena diciotto mesi quando le fu diagnosticata l’artrite idiopatica giovanile. Un tormento per ogni muscolo. «Certi giorni cammino, altri uso la carrozzina. A volte mi fa male la mascella e diventa difficile anche mangiare». Nonostante le sofferenze, c’è un rito a sostenerla prima di ogni gara: «Mi do tre botte sulle spalle, tre sulle ruote e tre sulle cosce. Poi ovviamente il segno della croce». In otto mesi ha affrontato tre interventi: due alle ginocchia, «uno invece mi ha addirittura lasciato le mani chiuse per due settimane. Allenarmi sembrava impossibile». Figuriamoci tornare a gareggiare. Eppure per la seconda volta è diventata campionessa italiana indoor sui 400 metri nella categoria LS4F, riconosciuta in Italia da soli due anni.  

«Dopo tre operazioni tante persone avrebbero mollato. Lei non ci ha mai neanche pensato»: papà Paolo racconta le avventure di Sara senza sorrisi compiaciuti e un sovraccarico di orgoglio. La sua ammirazione è nei loro sguardi. «Io lo chiamo solo “Paolo”, non “papà”», precisa Sara. «La nostra relazione è diversa. Ci spingiamo a vicenda». E nell’atletica la loro simbiosi diventa un impulso reciproco. Paolo l’ha avvertito la prima volta quando Sara è scesa in pista: lui non era mai andato a correre in un’intera vita, «ora faccio le notti a lavoro per accompagnarla la mattina. Ma spesso gareggio anche da solo». Sara invece sa di avere sempre le spalle coperte. Soprattutto durante le maratone, dove le proprie braccia non sempre bastano a guidarla. «A Roma facevamo i pacer, cioè quelli che affiancano i corridori», ricorda Paolo. L’immagine più bella, però, è affidata a Sara: «In trenta mi spingevano al traguardo, c’era gente sconosciuta a gridare il mio nome».

Anche sulle lunghe distanze Sara ha imparato a essere indipendente. La prima maratona senza Paolo è stata segnata dal Vaticano: era con suor Marie-Théo, compagna di team e di preghiera. «La prima volta mi salutò interrompendo un’intervista, in abito religioso. Sette giorni dopo correva con me in pantaloncini e canotta a Firenze».

Oggi Sara si allena allo Stadio dei Marmi, tra statue che hanno testimoniato la storia dell’atletica. «Ti senti protagonista di un film». Fuori da quella cintura di marmo, però, non ha lo stesso slancio della pista: «Palestre, scuole, mezzi di trasporto pubblici spesso non sono accessibili». Nemmeno il liceo artistico che frequenta a Roma: «Sono sempre sporca di vernice, ma anche lì nei laboratori gli spazi sono stretti. Oppure gli ascensori non funzionano, tutto è più complicato». Non ambisce a «diventare un esempio, non lo sono», vuole solo la libertà di correre. Magari fino a Los Angeles 2028, se la sua categoria verrà ammessa alle Paralimpiadi: «Sarebbe il sogno definitivo, anche perché quella è la città delle stelle». E chissà che lei non possa essere una di loro.