«The love of freedom is our strength and our curse», dice Ruslan, cercando le parole giuste in inglese. «Non so come si traduca dall’ucraino». In tutta l’Ucraina, soldati come Ruslan e civili sotto attacco si aggrappano a qualcosa che va oltre la strategia militare o la resistenza fisica, una parola: Volia. Un termine centrale nell’identità ucraina, difficile da tradurre, che racchiude il significato profondo di questa guerra. Letteralmente significa “libertà”, ma non nel senso astratto o legale del termine. Volia è libertà intesa come destino, come rifiuto della sottomissione e il diritto di esistere.
Secondo Liubomyr Mysiv, tra i principali sociologi ucraini e vicedirettore del Rating Group, un’organizzazione di ricerca indipendente ucraina, Volia è oggi la parola più frequentemente citata quando ai cittadini viene chiesto cosa rappresenti per loro l’Ucraina. «Questa guerra non riguarda il territorio», spiega Mysiv, «Riguarda il diritto di esistere come nazione. Volia è il cuore di questa lotta: non solo libertà di movimento o di espressione, ma libertà di essere noi stessi». Da dopo oltre tre anni di guerra, anche la più tenace delle resilienze inizia a mostrare segni di logoramento. I numeri parlano chiaro: a febbraio, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha parlato di oltre 46.000 soldati ucraini uccisi, 380.000 feriti, e “decine di migliaia” tra dispersi e prigionieri. Cifre che, secondo osservatori internazionali, sarebbero a ribasso.
Pubblicamente, molti ucraini si dicono pronti a resistere a tempo indefinito. In privato, le ferite sono ovunque: nella fatica, nel lutto, nella tensione psicologica delle bombe. «Quando si chiede direttamente se siano stanchi, rispondono di no», spiega Mysiv, «Ma basta porre domande indirette sul lavoro, sulle perdite, sulla salute perché emerga il peso reale che stanno portando». Questa dualità – l’invulnerabilità dichiarata e la fragilità taciuta – è lo specchio di una società che resiste sotto al peso della guerra. Un popolo che non ha solo il compito di resistere, ma anche di sostenere chi combatte, ogni giorno, per difendere quella parola così difficile da tradurre.
Secondo Vladyslav Klochkov, generale maggiore e comandante della direzione supporto morale e psicologico delle forze armate ucraine: «La società ucraina è stanca ma non spezzata». È un popolo che nonostante le ferite sta cercando di cambiare al passo con la guerra, muovendosi dalla mobilitazione per la vittoria alla mobilitazione per la sopravvivenza: «La solidarietà non è ideologia», dice Klochkov, «È l’esperienza della sopravvivenza comune. Da qui nasce il senso di responsabilità: sapere che la vita degli altri dipende da te, anche se non sei al fronte».

Dopo il 2022, per molti la guerra è diventata realtà improvvisa. Cittadini comuni sono diventati soldati senza preparazione, spinti da un dovere morale senza diritto alla stanchezza. «Se i militari percepiscono che il fronte interno vive in un mondo parallelo, questo li demoralizza. La vera preparazione a un conflitto prolungato non riguarda solo armi o logistica», aggiunge il generale, «ma una nuova etica collettiva: in questa guerra siamo tutti coinvolti, ognuno nel proprio ruolo». Di fronte a tanta determinazione il rischio, avverte Klochkov, è che la motivazione, senza un’elaborazione emotiva, possa degenerare in cinismo o apatia: «Quando un soldato smette di preoccuparsi di chi vincerà, allora siamo davanti a qualcosa di molto pericoloso – e prosegue – quando muore un compagno, il dolore non spezza la volontà. Al contrario, rafforza il senso della lotta. Ma col tempo, quella spinta morale si trasforma in un’esigenza cieca: non cedere mai, nemmeno quando corpo e mente crollano». Ruslan, che combatte da tre anni, racconta come l’esperienza e le competenze aiutino a rimanere vivi. Ma, una volta sul campo, neanche i veterani sono al sicuro: «Molti dei più motivati sono già morti. Stanno morendo tutti», dice.
«Ma non abbiamo alternative: dobbiamo continuare a combattere». Secondo Mysiv e molti analisti, l’obbiettivo di Mosca non è solo occupare territori, ma distruggere qualsiasi forma di identità che sfugga dalla narrativa del “mondo russo”. Per l’Ucraina, perdere la guerra non significherebbe solo perdere confini. Significherebbe perdere se stessa e il diritto a esistere come popolo. L’identità nazionale si è evoluta dalla dichiarazione di indipendenza del 1991, ma è stato il 2014, con l’annessione della Crimea, a segnare una prima cesura. L’invasione del 2022 ha completato la frattura, rendendo irreversibile una trasformazione in atto da decenni.
Oggi, oltre il 90% della popolazione si identifica come ucraino, secondo i dati del team di Mysiv: la percentuale più alta mai registrata. Anche il rapporto con la Russia è cambiato radicalmente: «Prima del 2014, molti ucraini vedevano i russi come vicini, con qualche riserva. Oggi, oltre il 90% li considera nemici», sottolinea Mysiv. «Non è solo una rottura politica. È un divorzio psicologico».
Le nuove generazioni, cresciute fuori dall’orbita sovietica, stanno costruendo un’identità che non guarda al passato comune, ma alla differenza. L’idea della “nazione sorella” si è rovesciata: «È diventata un nemico. E quel nemico si combatte con il sangue».
«La sensazione», conclude Ruslan, «è che la vita ti stia sfuggendo dalle mani, e tu non possa farci nulla. Ma arrenderci? Diventare schiavi dei russi? E poi combattere per i loro interessi? Non abbiamo scelta».