Esclusiva

Giugno 25 2025
Il reddito che uccide il vitello grasso

Dalla Germania al Sudafrica, passando per la Silicon Valley: perché il reddito di base non è pigrizia finanziata, ma fiducia nel potenziale umano

Dopo la pandemia, qualcosa si è rotto nel nostro rapporto con il lavoro. Milioni di persone in tutto il mondo hanno lasciato il proprio impiego. Il fenomeno è noto come “le grandi dimissioni” e ha coinvolto soprattutto i settori sottoposti a un logoramento continuo, come sanità, ristorazione e istruzione. Non solo una reazione al burnout, ma un rifiuto storico: il lavoro, così com’è oggi, non vale più la pena.

Questa disaffezione non è un fulmine a ciel sereno. L’antropologo David Graeber l’aveva vista arrivare anni prima, nel 2013, con la sua teoria dei “bullshit jobs”, i lavori inutili. Secondo lo studioso, una quota crescente del lavoro contemporaneo non serve a nulla. Ruoli creati solo per giustificare stipendi e gerarchie, per dare l’impressione che tutto funzioni. Lavori di cui persino chi li svolge fatica a vedere l’utilità. Secondo un sondaggio YouGov citato da Graeber, il 37% degli intervistati in Europa occidentale dichiarava che il proprio lavoro non contribuiva in alcun modo al mondo. Non disoccupati, ma impiegati, manager, consulenti: persone pagate per riempire fogli Excel o seguire processi senza scopo.

Questo senso di inutilità ha un impatto devastante sulla salute mentale. È difficile passare la vita facendo qualcosa che non ha valore né per sé né per gli altri. E allora si fa strada una domanda radicale: se milioni di persone lavorano solo per ricevere un reddito, e se questo lavoro è inutile o dannoso, non sarebbe più onesto, più efficace, dare quel reddito a tutti e lasciare che ciascuno scelga come vivere?

Non è un’idea nuova, è stata discussa già da Thomas Paine nel Settecento, da John Stuart Mill nell’Ottocento, da Hayek nel Novecento. È il reddito universale di base (Universal Basic Income, UBI): un trasferimento monetario periodico e incondizionato a tutti i cittadini. Oggi è sostenuto non solo da filosofi ed economisti di scuola marxista come Philippe Van Parijs, ma anche da uomini-simbolo del capitalismo moderno.

Elon Musk ha dichiarato: «L’UBI sarà necessario. Il problema più grande non sarà economico, ma psicologico: trovare significato in un mondo in cui il lavoro non è più necessario». Zuckerberg lo vede come una rete di sicurezza. Sam Altman lo finanzia attivamente. L’intelligenza artificiale, dicono, renderà superflui milioni di lavori: il minimo che si possa fare è redistribuire il valore prodotto. L’UBI immaginato dai guru della Silicon Valley è un modo per disinnescare le tensioni sociali senza cambiare nulla nel sistema produttivo. Ma non è l’unica interpretazione. Il reddito incondizionato è promosso da pensatori progressisti, economisti libertari, imprenditori digitali, ambientalisti e attivisti sociali. Per alcuni è un antidoto alla disoccupazione tecnologica, per altri uno strumento di emancipazione personale. Per Philippe Van Parijs, è il fondamento della “libertà reale”: la possibilità concreta per ciascuno di scegliere la propria vita, non solo in teoria. Alcune autrici femministe lo ritengono uno strumento di uscita da ruoli familistici stereotipati. Il reddito di base, insomma, gode di una trasversalità ideologica ben riassunta dal motto coniato da Andrew Yang, candidato alla presidenza degli Stati Uniti nel 2020: “Né di sinistra, né di destra, avanti”.

E insieme alle teorie, fioccano le sperimentazioni sul campo. In Germania, il progetto “Mein Grundeinkommen” ha dato 1.200 euro al mese a 122 persone per tre anni. Nessuno ha smesso di lavorare. Molti hanno cambiato lavoro, si sono formati, hanno migliorato la propria salute mentale. Più della metà ha intrapreso nuovi progetti professionali o educativi, grazie alla sicurezza di base.

A Denver, il programma Denver Basic Income Project ha fornito fino a 12mila dollari all’anno a persone senzatetto. Dopo un anno, il 45% dei partecipanti ha trovato una sistemazione abitativa stabile. Sono emersi miglioramenti anche nella salute mentale, nella stabilità economica e nel reinserimento lavorativo.

In Sudafrica, è stato dimostrato che anche 38 dollari al mese, distribuiti in modo universale, possono ridurre la povertà in modo più efficace rispetto a sussidi mirati, anche se più generosi.

Simili risultati si sono riscontrati in Namibia, India, Kenya, Brasile, Irlanda, Finlandia e Canada. Tra i benefici più ricorrenti: riduzione della povertà infantile, miglioramento dell’alimentazione, maggiore autonomia femminile, crescita dell’economia locale e benessere psicologico.

L’UBI sembra agire come un moltiplicatore sociale: libera tempo, riduce l’ansia, favorisce la partecipazione civica, la formazione, l’imprenditorialità. Ridà dignità anche ai lavori di cura, storicamente invisibili. E il rischio inflazione? Non è così automatico come si teme. Se è finanziato con le tasse — su patrimoni, profitti, automazione — non aumenta la quantità di denaro in circolo, lo redistribuisce.

Ma non mancano i rischi. Se mal progettato, il reddito universale può drenare risorse da altri servizi pubblici e diventare un modo per privatizzare il welfare: ti do soldi, ma poi ti curi da solo. Potrebbe essere un cavallo di Troia per smantellare diritti, se non accompagnato da investimenti in sanità, scuola, trasporti.

Infine, c’è un aspetto culturale. L’UBI rovescia la logica meritocratica: non devi dimostrare di essere povero, produttivo o “meritevole” per avere diritto a una vita dignitosa. Non c’è giudizio, non c’è paternalismo. C’è solo una premessa: la fiducia. Il diritto all’esistenza non si merita, si riconosce. Come nella parabola del figliol prodigo, che torna e trova non il rimprovero, ma l’abbraccio del padre e il vitello grasso. Il sogno del reddito di base è tutto qui: una società che non ha bisogno di controllare, punire, misurare. Ma che sceglie di investire nell’ingegno finalmente libero di chi non deve più preoccuparsi di come mettere il pane in tavola. E ci trova anche il vitello.