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Esclusiva

Marzo 22 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Aprile 9 2020
La maschera della morte rossa

Un tempo e un luogo imprecisati, in un’atmosfera da fiaba, con una pestilenza che imperversa, la fuga in campagna, la superbia e l’arroganza del farsi beffe della morte e di un morbo che però, prima o poi, viene a bussare alla porta

Il mondo intorno a noi sta cambiando, da qualche giorno a questa parte lo ha già fatto. Molte delle attività che consideravamo scontate, naturali, di fatto non lo sono più. Sono in pausa. Le lunghe cene con gli amici, i concerti, gli aperitivi. Ce ne rimangono però altre, e non meno degne. Ci sono i libri, che in tempi come questi offrono oltre che sollievo, anche una possibilità di evasione. Ci si immerge, lettera dopo lettera, frase dopo frase, e pian piano da una pagina in bianco e nero possiamo perderci in boschi, praterie, piazze e città esotiche dove non siamo mai stati prima. Una volta ancora, in soccorso nei momenti di difficoltà viene la cultura. #letteraturedaquarantena 


«Da gran tempo la “Morte Rossa” devastava la contrada. Mai s’era avuta pestilenza tanto letale, di tanta atrocità. Il sangue era il suo sigillo. Acri dolori, poi subito vertigine, e sangue e il mortale disfacimento. Le macchie scarlatte sul corpo, specialmente sul volto della vittima, erano il letale contrassegno che la escludevano dall’aiuto e dalla sollecitudine dei suoi simili. Insorgeva, si diffondeva e concludeva nell’arco di mezz’ora. Ma il principe Prospero era felice, temerario, sagace. Quando le sue terre furono a metà spopolate, convocò alla propria presenza tra cavalieri e dame di corte forse mille amici, robusti e di ilare cuore, e con costoro si ritrasse entro una abbazia fortificata, appartato rifugio, e solitario».

Inizia così, con il ritiro in campagna di fronte alla temibile pestilenza, il racconto di Edgar Allan Poe che nel 1842 apre le danze della letteratura moderna sulle pagine di Graham Magazine. Poe conosce bene la terribile devastazione portata nel suo tempo dal Colera. Forse ha anche avuto modo di leggere una curiosa lettera dell’aprile di dieci anni prima, nel quale il poeta tedesco Heinrich Heine descrive l’arrivo del colera a Parigi.                                  

«Il 29 marzo, la notte di Mi-careme, (una festa di carnevale tipicamente francese ancora in uso nelle colonie e nei territori d’oltremare) era in corso un ballo in maschera, con l’esibizione in pieno svolgimento. All’improvviso, nella moltitudine di maschere, l’arlecchino più allegro crollò a terra, freddo negli arti e, sotto la sua maschera, venne scoperto un volto violaceo. Le risate si spensero di colpo, la danza cessò, e in breve tempo un gran numero di persone si affrettò a correre dal salone delle feste fino all’Hotel Dieu  (che contrariamente a quanto potrebbe far pensare il nome non è uno sfarzoso albergo ma l’ospedale più antico di Parigi) più per morire che per essere guariti. Presto le sale pubbliche furono riempite di cadaveri, cuciti in sacchi per mancanza di bare. Lunghe file di carrozze aspettavano in coda fuori dal Père Lachaise. Tutti indossavano mascherine fatte con bende di flanella. I ricchi raccolsero le loro cose e fuggirono dalla città».

La maschera della morte rossa

Come nella migliore tradizione letteraria, il principe Prospero e i suoi amici fuggono. Si chiudono le porte di una alta fortezza alle spalle, senza sapere che non le attraverseranno un’altra volta per andarsene. Se l’atmosfera ricorda una fiaba, l’abbazia in cui si rifugiano poco somiglia ai castelli che alle favole fanno da scenario, e nemmeno al palazzo incantato del mago Atlante nell’Orlando Furioso. L’operazione dei fabbri che sigillano il bronzo dei chiavistelli dell’abbazia avvicina questo luogo tetro molto più a un mausoleo, quasi a premonire quella che sarà la fine dell’allegra brigata.   

Fuori la Morte Rossa e dentro la Bellezza. Poe personifica le due presenze che in questo modo sembrano evocate in una lotta tra rivali in carne e ossa. Il principe Prospero, dopo aver passato quasi cinque mesi di isolamento con i suoi mille amici tra danze, giullari e banchetti, sempre più in virtù del suo nome, decide di organizzare un sontuoso ballo in maschera.

Vengono arredate sette stanze, sette stanze per sette colori: un labirinto che a ritmo dei rintocchi di un tetro pendolo si tinge prima di azzurro, poi di rosso, poi di verde, arancione, bianco, viola e infine di nero. Un arcobaleno che ha qualcosa di sinistro per quell’opposizione di luce e tenebra e per lo srotolarsi del labirinto che con le sue sette stanze allude al numero magico per eccellenza, denso di richiami biblici, non ultimo quello all’Apocalisse di San Giovanni, in cui fanno la loro apparizione per la prima volta in letteratura la figura della Morte e della Pestilenza impersonificate.

«Per quelle sette stanze incedeva una folla di sogni. E questi, i sogni, si agitavano, colorandosi dei colori delle stanze». I mille amici di Prospero hanno costumi cangianti, sotto le sfumature dei vetri colorati che decorano le finestre gotiche del castello, eterei ballano guidati dall’orchestra, a metà strada tra essere fantasmi di fantasia e corpi celati da maschere.

«E la festa turbinò, finché la pendola prese a suonare la mezzanotte. E allora la musica cessò» e insieme all’eco dell’ultimo rintocco i sussurri della folla si trasformano in un brusio allarmato per l’arrivo di «una figura mascherata che, prima, era sfuggita all’attenzione». Sotto i dettami del Carnevale, in cui regna il rovesciamento della realtà, tutto è lecito, così anche gli scherzi e i costumi possono essere quanto più irriverenti si voglia. Ma «anche nei cuori dei più sfrenati vi sono corde che non si possono toccare senza turbamento»: quella maschera somigliava troppo alla Morte Rossa che la folla era sicura di aver chiuso fuori da quel luogo tanto protetto.

Un affronto troppo grande anche per il padrone di casa, che notata quella figura avanzare con passo marziale sbotta: «Chi osa? – domandando ai cortigiani che gli stavano dappresso, – chi osa insultarci con tale beffa blasfema? Prendetelo, strappategli la maschera, affinché́ possiamo sapere chi faremo impiccare sugli spalti, al levar del sole!».

Le parole del principe rimbombano nel silenzio della musica interrotta. Infuriato attraversa le stanze fino ad arrivare all’ultima, dove si aggira la figura della Morte Rossa. I suoi drappi neri si confondono con le cupe pareti di velluto e Prospero non fa in tempo a vedere le macchie rosse sgargianti che ha sulla maschera che gli copre il volto perché cade a terra esanime accompagnato dalla sua spada scintillante.

«E così si seppe che quella era la Morte Rossa, giunta come ladrone di notte. E ad una ad una caddero le maschere festose nelle sanguinose sale della festa. E la vita del pendolo d’ebano si estinse con l’ultima vita dei lieti cortigiani».

Barricarsi nella fortezza non è servito e tantomeno farsi beffe del morbo che fuori imperversava. La Morte Rossa, dopo mesi all’improvviso è riuscita a entrare. Forse passando per uno spiraglio delle finestre gotiche della fortezza, forse era lì da sempre ma nessuno se n’era mai accorto, così distratto dalle feste e dai buffoni. Poco importa, se la si prende poco sul serio, se si minimizza, di fronte ai negazionisti, come molte altre volte nel corso della Storia, la pestilenza prima o poi arriva, e fa il suo corso.