«Prima di entrare nella “zona sporca” indosso la divisa monouso di carta, mascherina, visiera, camice idrorepellente e doppio guanto. Scrivo il mio nome sul petto con un pennarello. Ho comprato degli stivali da giardinaggio impermeabili in gomma, sono più facili da sterilizzare».
Ogni mattina, alle 7,20, Lorenzo attraversa la porta a vetri dell’Istituto Clinico Sant’Ambrogio, un ospedale privato milanese che ha convertito i reparti per l’emergenza Covid-19. Nella zona pulita, l’anticamera sterile, si pianifica la giornata, si fa il punto sui pazienti. «Nella mia equipe non ci sono infettivologi o pneumologi, sono tutti cardiologi, come me, cardiochirurghi e ortopedici: persone che si sono messe alla prova. Per questo non esistono gerarchie, dal tirocinante al professore siamo tutti allo stesso livello, facciamo il giro visite insieme, ci diamo del tu». Uno specializzando ventiseienne, abituato alla riverenza verso i propri superiori, queste cose le nota.
Nella struttura dove lavora, quattro piani su cinque sono al servizio della pandemia, solo uno alle altre emergenze. «A inizio marzo, il primario mi ha chiesto se volessi continuare a seguire i pazienti cardiologici o aiutare nel reparto Covid. Ho preso un giorno per riflettere, la situazione non era così grave. Papà è medico, mi ha sostenuto. Poi c’è il giuramento di Ippocrate: nei casi di calamità siamo al servizio dei pazienti, io ci credo tanto. Superata la paura iniziale, istintiva, ho deciso di andare».
«Verso le 9 e mezza, siamo quattro medici, divisi in gruppi da due entriamo nella zona infetta. Qui ci sono gli infermieri, “bardati” come noi e circa 30 pazienti. Il rapporto con loro è stravolto: puoi trovare persone che non si rendono conto che, nell’arco di qualche ora, potrebbero aggravarsi, morire. Il decorso di questa malattia è imprevedibile, può virare da un momento all’altro. Non dico che ho paura dei pazienti, però… bisogna stare attenti. Non puoi stargli vicino, auscultargli i polmoni, perché magari tossiscono. Vediamo come respirano, di cosa hanno bisogno».
Durante il giro visite, i medici controllano i malati che necessitano di assistenza ventilatoria, controllano la posizione dei caschi, tenuti a pressioni altissime per permettere di respirare a chi ha più difficoltà. Lorenzo, come i suoi colleghi, resta per più di 5 ore con la mascherina, la tuta isolante, fatica a respirare. Non può bere, né mangiare perché sarebbe uno spreco di dispositivi monouso. «È una sfida fisica, oltre che psicologica».
«Il momento più duro è stato quello iniziale, quando sono arrivati i pazienti gravi. Il primo morto non lo scorderò mai: visitato la sera prima, ci avevo parlato, era stabile. È deceduto durante la notte. Quando l’ho saputo, il giorno dopo, sono rimasto scioccato, ho provato sconforto e paura. E poi muoiono soli, non possono interrompere la terapia ventilatoria per telefonare ai propri cari».
Prima di lasciare l’ospedale, la doccia: «Faccio attenzione alle parti più scoperte, il collo ad esempio, poi ci ripasso l’Amuchina. Ho paura di contagiare qualcuno, potrei risultare positivo in qualsiasi momento».
«Questa settimana i primi momenti belli, le prime dimissioni, dopo 15 – 20 giorni di ricovero. Un paziente mi ha detto: “vi riconosco solo dalla voce, ma per me siete tutti degli angeli”. Chi è malato, non vede il volto del proprio medico, di chi cerca di salvargli la vita. Come un supereroe mascherato, ma a Lorenzo questa retorica non piace. «L’eroe non è umano, io si, e sto facendo il mio lavoro, confermando una mia scelta. Il medico non c’è solo nel momento del bisogno, c’è sempre».
Nel team Covid-19 del Sant’Ambrogio si è arruolato come volontario anche Marco, trentasette anni, ortopedico. Quando parte della struttura è stata dedicata al coronavirus non ha avuto dubbi: «tutti si chiedono cosa ci faccia un “segaossa” in prima linea. Sarebbe come mettere un infettivologo al tavolo operatorio. Bisogna saper guardare oltre. È il momento di superare l’eterno campanilismo tra medici e chirurghi, perché serve il contributo di tutti. Circa dieci giorni fa ho preso questa decisione. Ho un’indole generosa, tendo a buttarmi e a dare il mio apporto. In qualunque modo. Ho capito di poter essere utile ammettendo i miei limiti. Ci sono colleghi con nozioni ed esperienze lavorative più idonee delle mie per il tipo di battaglia che stiamo combattendo, perciò mi sono messo a completa disposizione, riducendo la loro mole di lavoro. Faccio “manovalanza”, mi occupo della parte burocratica, richiedo gli esami strumentali, controllo i risultati dei prelievi e gestisco i pazienti meno gravi. Svolgo un altro mestiere rispetto a mesi fa, senza essere retribuito. Ma questa nuova collocazione non sminuisce la mia figura professionale. Il paziente prima di tutto».
In corsia si lavora in condizioni difficili, con frenesia. Non si può scegliere di rallentare e gestire il proprio tempo. La situazione e il tipo di malattia non lo consentono. I ritmi sono scanditi dalle Tac del torace, dai campanelli che suonano, dal rumore dell’aerosol terapia. È una trama che si ripete ogni giorno, mai uguale a sé stessa.
«Le persone ricoverate per Covid-19 hanno paura. Grazie a internet e alla televisione sono informate e consapevoli del rischio che corrono. Ma c’è un aspetto che rende unica questa malattia: sono i pazienti a temere per la salute dei propri cari, non il contrario. Ci costringono a vere e proprie maratone telefoniche. A causa delle norme sull’isolamento, alzare la cornetta è l’unico strumento di informazione che abbiamo. A volte è dura dover comunicare un decesso senza poter fornire uno sguardo di conforto ai parenti. È altrettanto difficile avvisare un malato che un suo familiare è deceduto, senza averlo potuto salutare o abbracciare un’ultima volta».
In un momento così, anche il modo con cui un medico affronta l’aspetto della morte cambia, si trasforma. «La fase più dura della giornata è il giro visite nell’area riservata ai pazienti critici. È una sorta di anticamera dell’inferno, dove gli allarmi dei monitor e lo “sbuffare” dei ventilatori polmonari ti martellano la testa, come un tragico ritornello. Seguo gli altri specialisti, cercando di acquisire nozioni sulle tecniche di supporto respiratorio non invasive. Mai avrei immaginato di trovarmi a discutere di flussi, pressioni inspiratorie e volumi d’aria. Qui le persone lottano tra la vita e la morte e molti non ce la fanno. Si vive una situazione assurda, al limite. Le risorse a nostra disposizione non bastano per tutti i malati e spesso si prendono decisioni drammatiche: in base alle possibilità di sopravvivenza, si sceglie a chi dare una chance e a chi negarla, chi vive e chi muore. Sembra cinico, eppure diventa l’unica opzione possibile. Fa male perché ti senti impotente, ma bisogna accettarlo e sviluppare in fretta gli anticorpi contro la disperazione. In questo momento storico, durante la pandemia del secolo, il nostro mestiere è anche questo».
Nell’era del Coronavirus, anche la vita privata dei medici è sconvolta: «Nessuno è immune al dolore, anche se indossa un camice bianco. Ho perso una cara amica di trentasette anni la settimana scorsa. Pur trattandosi di una paziente “fragile”, stava lottando con tutte le sue forze. Non sono riuscito a dirle addio».
«Ma la cosa più dura è tornare a casa e non trovare mia figlia. Ha due anni e non la vedo da quindici giorni. Per precauzione sta dai nonni, a meno di un chilometro di distanza. Quei mille metri sembrano infiniti. Mi manca da morire».
Ma questa tragedia permette a Marco di riscoprire dinamiche dimenticate: «mia moglie è cardiologa. Anche lei lavora “in trincea”. In un momento così complicato, senza la nostra bambina, abbiamo ritrovato una complicità. Nel tempo che trascorriamo insieme cuciniamo, vediamo film e facciamo yoga. Si, proprio yoga. Casa è il nostro angolo felice. È un modo per rallentare, per proteggersi dalla frenesia che ci circonda e di cui facciamo parte.
Quando l’incubo sarà finito tutti riprenderemo in mano la vita. Riassaporeremo le cose di cui ci stavamo privando. E non commetteremo più l’errore di tenere il telefonino sempre in mano, riscoprendo i rapporti reali, attraverso la semplicità di un abbraccio».