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Esclusiva

Marzo 29 2020
Nemesi, l’ultimo Philip Roth

Pubblicato nell’ottobre del 2010. È l’ultimo romanzo dell’intensa carriera di Philip Roth. Un libro di fiction, che chiude la raccolta di “Everyman”, “L’indignazione” e “Umiliazione”. Ambientato nell’estate del 1944 racconta di un’epidemia di polio che colpisce la comunità di Newark, in New Jersey e più di tutti, i suoi bambini.

Il mondo intorno a noi sta cambiando, da qualche giorno a questa parte lo ha già fatto. Molte delle attività che consideravamo scontate, naturali, di fatto non lo sono più. Sono in pausa. Le lunghe cene con gli amici, i concerti, gli aperitivi. Ce ne rimangono però altre, e non meno degne. Ci sono i libri, che in tempi come questi offrono oltre che sollievo, anche una possibilità di evasione. Ci si immerge, lettera dopo lettera, frase dopo frase, e pian piano da una pagina in bianco e nero possiamo perderci in boschi, praterie, piazze e città esotiche dove non siamo mai stati prima. Una volta ancora, in soccorso nei momenti di difficoltà viene la cultura. #letteraturedaquarantena 


Newark, New Jersey, 1944. Bucky Cantor è l’animatore del campo estivo locale. Ventenne, atletico, dedica anima e corpo ai suoi ragazzi e convive ogni giorno con la bruciante frustrazione di essere stato escluso dall’esercito per via di un problema alla vista.

La vita del giovane Bucky si consuma sullo sfondo di un’epidemia che fa la sua comparsa nel Jersey entrando nel quotidiano del protagonista, quando arriva a colpire anche il suo campo estivo. La sua reazione diventa così il pretesto per raccontare la sfaccettata gamma di emozioni che le epidemie fanno scaturire, la paura, la sopraffazione, il senso di impotenza, la rabbia e la confusione.

La confusione generata da mancanza di certezze, di conoscenza e di rassicurazioni. «Dato che allora nessuno conosceva la fonte del contagio, era lecito sospettare pressoché di tutto, inclusi gli scheletrici gatti randagi che prendevano d’assalto i bidoni della spazzatura nel nostro cortile, i cani inselvatichiti che vagabondavano affamati intorno alle case defecando nelle strade e sui marciapiedi, e i piccioni che tubavano negli abbaini imbrattando di guano gessoso i gradini davanti alle porte». Potevano essere altrettanto considerati responsabili l’acqua, il caldo, le zanzare o anche un innocentissimo hot dog.

A differenza di molte altre opere di Roth, caratterizzate da una forte componente “pensosa”, in cui la trama è caratterizzata da lunghi elementi cogitativi, flussi di pensiero, riflessioni sui problemi del mondo, in Nemesi sembra prevalere una dimensione del racconto più “fattuale”. L’autore restringe il proprio orizzonte di analisi, destruttura la sua solita psicanalisi narrativa.

Unico autore americano di cui la Library of America ha pubblicato l’opera integrale mentre era in vita, vincitore del premio Pulitzer nel 1997 con Pastorale americana e il solo scrittore ad aver vinto per tre volte il Premio PEN/Faulkner per la narrativa. Philip Roth è un nome imprescindibile per ogni riflessione che si voglia fare sul romanzo.

Abile scrutatore della realtà che lo circonda cammina nella casa degli specchi dei suoi alter ego, con cui litiga ma con cui spesso coincide, e attraverso i loro occhi, proiettando la sua identità ebraica e statunitense insieme, racconta i luoghi comuni e i tabù americani. I suoi protagonisti portano con loro tutta l’inettitudine novecentesca, del secolo delle incertezze: si confrontano con una quête incessante di un’esistenza alternativa che però si risolve senza sviluppi eroici in auto-avvolgimenti inconcludenti.

Il dover combattere una “guerra nella guerra” mette il lettore di fronte a un conflitto intimo, in cui un male subdolo e silenzioso come la polio corre veloce tra le strade della città di Newark mentre nello stesso momento i soldati americani sono impegnati sul fronte europeo nel secondo conflitto mondiale.  

Parola dotta, Nemesis entra nell’Early Modern English alla fine del XVI secolo col principale significato di “dea della vendetta” e di giustizia distributiva, proprio come nell’antichità, ma nell’inglese-americano si carica di un’ulteriore accezione: il “nemico per eccellenza”. Qui il nemico o i nemici sono molteplici: una guerra all’orizzonte, una malattia silenziosa, o il protagonista stesso, che per i suoi valori e la visione della vita che incarna, potrebbe essere considerato una nemesi dell’autore.

La “malattia dell’estate”, quella che arriva col caldo, e di cui nessuno capisce la causa. E come sempre, quando sembra scomparire la razionalità, inizia la caccia alle streghe, o meglio, agli untori. «Fu qualche giorno dopo che due fra i ragazzi non si presentarono al campo giochi della Chancellor per giocare a softball. La mattina entrambi si erano svegliati con la febbre alta e il torcicollo. Quelli di Herbie e Alan erano i primi casi di polio del quartiere. Nel giro di quarantott’ore ci furono altri undici casi e, anche se nessuno di loro era stato presente quel giorno al campo, nel quartiere si sparse la voce che la malattia era stata portata a Weequahic dagli italiani».

Man mano che passano i giorni dall’inizio del contagio, l’isteria della gente cresce. La rabbia è nei confronti delle istituzioni “che non fanno abbastanza” e nessuno riesce a trovare un motivo ragionevole che spieghi il catapultarsi degli eventi, neanche in Dio si riesce più a trovare conforto. Tutto questo scuote soprattutto Cantor, cresciuto nell’ideale della “cosa giusta” e abituato dall’educazione impartitagli dai nonni, coi quali è cresciuto, a vedere l’equilibrio del mondo tendente sempre al bene.

«Perché Alan si è preso la polio? Perché ha dovuto ammalarsi e morire? Esiste un ragazzo che si occupasse della sua camera, dei suoi vestiti e di sé stesso meglio di Alan? Tutto quel che faceva, lo faceva bene fin dalla prima volta. Ed era sempre contento. Sempre pronto a scherzare. Perché allora è morto? Dove sta la giustizia? Da nessuna parte, – disse Mr Cantor. Fai solo la cosa giusta, la cosa giusta e la cosa giusta e la cosa giusta. Mille volte la cosa giusta. Cerchi di essere oculato, di essere ragionevole, di essere premuroso. E poi succede questo. Qual è allora il senso della vita? A quanto pare non c’è, – rispose Mr Cantor. Sarebbe questa la bilancia della giustizia? – domandò il pover’uomo. Non lo so, Mr Michaels. Perché la tragedia colpisce sempre le persone che meno se lo meritano?»

Alan Michaels, uno dei ragazzi del campo di Bucky, si ammala e muore dopo sole 72 ore, il giovane animatore si reca a parlare con il padre del bambino defunto. Dal dialogo tra i due da cui emerge il tentativo disperato dell’essere umano di razionalizzare qualcosa che razionale non è.

Addolorato e impotente di fronte a una missione che gli sembra, stavolta, più grande di lui, quella di infondere serenità e sicurezza ai suoi ragazzi, cede alla richiesta della fidanzata Marcia che gli consiglia di partire alla volta di Indian Hill, un campeggio estivo nelle salubri Pocono Mountains, dove sostituisce un educatore chiamato sotto le armi. Il tema della fuga dalla città contagiata dalla pandemia e del rifugio nella natura torna anche in molti altri luoghi della produzione di Roth. Presto però Bucky vive questo trasferimento come una forma di diserzione, un abbandono che ha inflitto ai ragazzi del suo campo estivo.

Da quel momento Bucky vivrà per sempre con un senso di colpa che lo attanaglia e che lo accompagna anche nel corso della sua personale lotta alla malattia. «Volevo aiutare i ragazzini e renderli forti, – disse infine, – e invece ho arrecato loro un danno irrevocabile. Quello era il pensiero che aveva plasmato i decenni di silenziosa sofferenza di quell’uomo che meno di chiunque altro meritava il danno che aveva subìto».

Ma alla fine di tutto è inutile dannarsi, il caos gioca una componente di enorme peso nelle vicende umane, pandemie e disgrazie non sono punizioni per torti arrecati, ad andarsene, e per quanto inaccettabile, sono spesso gli innocenti. È l’incontrovertibile, sembra rendersene conto anche il protagonista nel terzo capitolo del libro «Quel che è stato, è stato, – disse. – Quel che ho fatto, ho fatto. E di quel che non ho, faccio a meno».