Attenzione! Questo articolo è stato scritto più di un anno fa!
!
Esclusiva

Dicembre 31 2020
Mank, un’autobiografia del cinema

Il film di David Fincher, prodotto da Netflix, è un viaggio negli «splendori» della Golden Age di Hollywood. Le origini di Quarto Potere e le contraddizioni del cinema, tra passato e presente

«Non si può cogliere l’intera vita di un uomo in sole due ore. Il massimo che puoi sperare è dare l’impressione d’averlo fatto»

California, 1940. Lo sceneggiatore Herman Mankiewicz, costretto a letto dopo un incidente d’auto, si isola nel deserto del Mojave con infermiera e segretaria per dare vita a uno script commissionato da Orson Welles, ventiquattrenne talento del teatro a cui la RKO ha dato carta bianca. Mank, come si fa chiamare da amici e nemici, cerca ispirazione tra i ricordi degli anni passati, che vediamo attraverso lunghi flashback: spesso ospite nel castello di William Randolph Hearst – il magnate dell’editoria a cui si ispira per il personaggio di Kane – e al servizio di Louis Mayer, potente capo della Metro-Goldwyn-Mayer.

Mank è molto più di un biopic sullo sceneggiatore di Quarto Potere. Segue la vita di Herman Mankiewicz, interpretato da Gary Oldman, ma non racconta una parabola individuale, con il suo arco di ascese e cadute: l’ultimo lavoro di David Fincher narra la genesi del «miglior film di sempre», Citizen Kane, abbracciando la tesi avanzata cinquant’anni fa dal New Yorker (e poi screditata) per cui la sceneggiatura di Quarto Potere sarebbe da attribuire soltanto a Mankiewicz. Ed è un affresco preciso della Hollywood che fu: un racconto sociopolitico, una riflessione sul potere e i suoi mezzi, uno sguardo al passato che ci parla del presente.

Mank, poco più che quarantenne, è interpretato da un attore di vent’anni più vecchio. Ha una moglie chiamata «la povera Sara» ed è quasi sempre ubriaco. Eppure è il re delle battute argute, ironico e colto, un genio brillante divorato dall’alcol e dalla crudeltà dell’industria del cinema: coraggioso, affettuoso, invincibile e vinto, è un antieroe donchisciottesco che vive con orrore nell’epoca travagliata della Grande depressione, mentre l’improvvisa miseria e le code dei nuovi poveri sono ignorate dagli schermi.

La sceneggiatura di Mank è di Jack Fincher, padre di David, che non riuscì mai a far realizzare il film dagli studios di Hollywood. Ora Mank vede la luce grazie al figlio, che più di vent’anni dopo si vendica di quello schiaffo e crea una pellicola raffinata da tenere sott’occhio in vista degli Oscar: un meta-film fatto di dialoghi densi e sagaci (forse non per tutti) e costruito sul parallelismo con Quarto Potere, di cui riprende la struttura frammentata, con salti avanti e indietro nel tempo. Con diversi piani temporali che formano un mosaico della vita di Mankiewicz e offrono uno spaccato della Golden Age hollywoodiana.

Houseman: «Lei sta chiedendo molto al pubblico cinematografico. Tutto sommato, è un gigantesco groviglio»
Mank: «Ha detto groviglio o sbadiglio?»
Houseman: «Un guazzabuglio di conversazioni. Una collezione di frammenti che rimbalzano come fagioli salterini messicani»
Mank: «Benvenuto nella mia testa, vecchio mio»
Houseman: «Posso consigliare di semplificare?»
Mank: «Come disse una volta Pascal, “Se solo avessi avuto più tempo, avrei scritto una lettera più breve”»

Fincher ricostruisce la Hollywood che fu attraverso una messa in scena e una tecnica che ricalcano quelle dell’epoca: con un bianco e nero così intenso da sembrare 3D, inquadrature retrò e scenografie che paiono uscire dagli anni ’30. Mank è uno specchio deformato dei nostri tempi. La dissezione del cinema è compiuta tramite Netflix, il colosso dello streaming che è accusato di «ammazzare le sale». La crisi che oggi attraversa Hollywood – colpita da una trasformazione dei consumi inasprita dalla pandemia del 2020 – rispecchia la crisi economica che si abbatté novant’anni fa sulla «fabbrica dei sogni», già segnata dal passaggio al sonoro.

Sullo sfondo c’è poi la politica, con le elezioni del ’34 per il governatore dello Stato: c’è un democratico come Upton Sinclair, abbandonato dall’establishment di Roosevelt e sconfitto a colpi di fake news dalla macchina della propaganda di Hollywood. Ma Roosevelt non è il solo a uscirne appannato: stessa sorte tocca all’iconico Welles, che non si fa scrupoli a considerare come propria la sceneggiatura di Mank. Un panorama di uomini mossi da fama, potere e denaro in cui a tratti si salva Marion Davies, diva al tramonto interpretata da Amanda Seyfried. L’amante di Hearst è la musa ideale per il grande Mank, alla ricerca di qualcosa che gli restituisca la purezza del cinema.