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Esclusiva

Gennaio 27 2022
«Perdonare senza dimenticare», così si costruisce il futuro

I giovani devono diventare portatori dei valori testimoniati nei racconti dei superstiti degli orrori nazifascisti, come Laura Federici.

«Ai giovani bisogna raccontare ciò che è successo, sennò non entra in testa». Laura Federici pronuncia queste semplici, importanti, parole seduta nel salotto della sua casa a Cascina, comune nella provincia di Pisa.

È tornata, dopo una pausa dovuta alla pandemia, in una scuola per raccontare la sua storia di sopravvissuta alla strage nazifascista di Vinca. Mostra la medaglia che le hanno dato per l’occasione, «la medaglia della Santa Caterina», e la posa di fronte alla foto del marito, Celso Battaglia.

«Io ho un carattere riservato, sono diventata chiacchierona da quando è morto mio marito». È lui che ha rotto l’argine del silenzio sul massacro nazifascista durante il quale, tra il 24 e il 27 agosto 1944, sono stati uccisi 173 civili. «Per tanti anni, dopo l’eccidio di Vinca, nessuno raccontava cosa era successo. Se uno di fuori chiedeva qualcosa, si cambiava discorso. Per noi era una cosa vergognosa, non ne volevamo più parlare». Finché il silenzio è diventato intollerabile, un affronto ulteriore dopo tutto il dolore.

Ma testimoniare costa fatica. Laura distoglie lo sguardo, stringe le mani, mentre arriva al punto più doloroso del suo racconto. «Nella capanna sotto di noi c’erano due ragazze, una aveva con sé la nipote di due mesi, e i tedeschi le hanno fatte uscire. Hanno cominciato a giocare con queste ragazze. Io pensavo che giocassero, avevo 7 anni. Dopo uno ha preso la neonata, l’ha lanciata in aria, l’altro con il mitra ha sparato. L’ho visto, non si può dimenticare. Li rivedo, proprio nel mio cervello li rivedo». Laura si ferma, ma lascia passare solo un attimo, poi dice «continuiamo».

La fatica e la forza della sua testimonianza sono le stesse che Maurizio Verona, Sindaco di Stazzema e Presidente del Parco nazionale della pace di Sant’Anna, ha colto spesso negli occhi dei superstiti di un altro degli eccidi avvenuti sui monti delle Alpi Apuane nell’estate del 1944, quando i tedeschi in ritirata colpivano i civili lasciandosi cumuli di morti alle spalle.

Il tema della conservazione della memoria lo preoccupa. Un timore rinnovatosi recentemente, alla morte di Enrico Pieri, uno dei testimoni più attivi della strage di Sant’Anna di Stazzema. «La forza del racconto di chi ha vissuto il 12 agosto 1944 a Sant’Anna è insostituibile». Verona ha incontrato scolaresche per molto tempo, lo ha fatto da solo e insieme ai superstiti e, assicura, «i ragazzi ascoltano, sono molto sensibili».

Il sindaco rifugge l’idea che la mancanza di memoria sia attribuibile alle giovani generazioni. «Pochi giorni fa una ragazza mi ha chiesto perché non potesse essere fascista, che questa era una limitazione della sua libertà. Ha dovuto comprendere che essere fascista vuol dire essere detentrice di un’ideologia che uccide le libertà altrui. Lei ha capito, non è colpa sua se fa la domanda».

Il fallimento semmai è quello di una società che minimizza e assorbe ogni episodio di cronaca. Come quello dell’assalto alla CGIL, o dei novax che sfilano paragonandosi agli ebrei nei lager, o, ancora, dell’attacco antisemita avvenuto nella giornata del 23 gennaio ai danni di un dodicenne nel livornese. Nell’indifferenza di fronte a questi fatti, che sollevano solo un’indignazione momentanea, viene negata la memoria. Enrico Pieri parlava del suo passato perché voleva dare il proprio contributo alla costruzione di un futuro di cooperazione e accoglienza.

Gli occhi di Verona si arrossano mentre racconta dell’insegnamento ricevuto da Pieri alla fine di un’udienza per la strage di Sant’Anna. Il sindaco non aveva potuto evitare di manifestare odio nei confronti dell’ufficiale tedesco che raccontava di aver preparato i mitra da scaricare sulle persone ammassate sulla piazza della chiesa, sordo alle preghiere del parroco che cercava di offrire la propria vita al posto di quella dei parrocchiani. «Enrico Pieri, una volta fuori, mi disse che non si deve odiare, che con l’odio non si costruisce la pace, che è necessario criminalizzare l’ideologia ma non alimentarci di odio».

Il futuro della memoria è nello spirito di queste parole anche secondo Silvia Guetta, docente dell’Università di Firenze e membro della comunità ebraica, che si è dedicata agli studi sull’esercizio del ricordo. «Il ruolo dei testimoni deve essere messo in una prospettiva storica, non serve cristallizzarne i racconti». Chi rimane deve assumersi la responsabilità del ricordo, adottare e trasmettere l’orizzonte valoriale che è la vera eredità di chi ha sacrificato la propria esistenza, scegliendo di vivere con una ferita aperta affinché si sapesse l’orrore del nazifascismo.

Laura lo dice sempre ai ragazzi che incontra, «bisogna perdonare, però non si dimentica. Io rivedo tutto, rivedo i lanciafiamme che puntavano in aria, rivedo il paese che brucia. Sento l’odore anche da lontano, di questo bruciare».

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