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Esclusiva

Febbraio 20 2022
«Chi dice donna dice donna»

Il linguaggio inclusivo e la parità di genere: il cambiamento della società passa dal vocabolario

Femmina non è una parolaccia. Eppure, Natalia Ginzburg desiderava scrivere come un uomo, Oriana Fallaci ha inciso sulla lapide “scrittore” e Beatrice Venezi ha reclamato il ruolo di “direttore” d’orchestra sul palco del Festival di Sanremo. Introiezioni del pensiero patriarcale, perché il linguaggio racconta la realtà, e la realtà ha riservato per secoli la cura della famiglia alle donne e il prestigio del lavoro agli uomini. «Siamo cresciute in un mondo in cui il maschile sovraesteso era normale, non esistevamo in classe, non esistevamo da nessuna parte» spiega Carolina Capria, scrittrice e autrice della pagina Instagram L’ha scritto una femmina, dove approfondisce la letteratura femminile. «L’uso del linguaggio inclusivo, cioè della declinazione anche femminile del mondo, è fondamentale per rendere visibili le donne» prosegue Mariella Martucci, autrice con Capria di libri per ragazze e ragazzi.

«Chi dice donna dice donna»
Femmina non è una parolaccia, libro inclusivo di Carolina Capria e Mariella Martucci

L’educazione alla consapevolezza dei generi e all’inclusione deve iniziare dall’infanzia, a partire dal superamento del sessismo intrinseco nelle parole e nell’apparato iconografico dei libri scolastici. «Se una bambina legge solo la parola “ministro”, e mai la parola “ministra”, immaginerà un signore in giacca e cravatta, e non una donna» spiega Martucci. Anche secondo Vera Gheno, sociolinguista e traduttrice, l’uso dei femminili professionali è necessario per «normalizzare la presenza femminile nei luoghi di lavoro nei quali la donna era, ed è ancora, un’anomalia». I media chiamano le professioniste per nome o in base alla prossimità con un uomo e raccontano i traguardi lavorativi femminili come un’eccezione alla regola, come è accaduto per l’elezione di una Presidente della Repubblica “donna”. Una narrazione che rafforza il pensiero patriarcale anche in molte donne, che «percepiscono il femminile come degradante e rivendicano il maschile come riconoscimento di prestigio». La parità di genere, infatti, «è nominalmente garantita, ma non è agita, perché una donna fatica nel conquistare le posizioni apicali, è discriminata nella retribuzione e viene bloccata per la gravidanza».

Serve dunque un grande cambiamento culturale, sociale e linguistico della mentalità androcentrica, che non giustifichi più il comportamento predatorio del catcalling come rinforzo della bellezza femminile, i chiarimenti indesiderati del mansplaining e le cronache di femminicidi inconsapevoli. «Scalpitiamo, ma non può avvenire dall’oggi al domani» ricorda Gheno. Bisogna sfogliare i vocabolari, riscoprire il femminile e, se serve, inventare parole nuove. «Lo spettro delle parole, come quello dei colori, è infinito». Se la “maestra” è sempre esistita, e se Virginia Raggi e Chiara Appendino hanno sdoganato il termine “sindaca”, non resta che attendere l’evoluzione della vita delle donne e della lingua italiana.