«Ho lasciato Kiev il 27 febbraio: c’era grande panico tra la gente, un costante allarme antiaereo, grandi ingorghi, era impossibile fare il pieno e la benzina finiva. C’era una grande paura poiché c’erano molte notizie che le auto delle persone in partenza fossero state attaccate da colpi di arma da fuoco. Abbiamo percorso 200 chilometri in 12 ore. Abbiamo trascorso una settimana a 200 chilometri a ovest della Capitale. Poi hanno iniziato a bombardare attivamente questa zona: hanno distrutto scuole, asili, ospedali. Il panico è aumentato! E in questo periodo l’università di Catanzaro mi ha mandato un invito per un progetto di mobilità di due mesi e mi ha permesso di portare mio figlio. Ero felice. Il mio viaggio fino a Catanzaro è durato cinque giorni e il momento peggiore è stato il treno per Uzhgorod. Era pieno. Le persone si sdraiavano e si sedevano per terra. Per tutto il tragitto c’era sempre l’allarme antiaereo e il treno che ci seguiva è stato preso di mira da colpi di arma da fuoco». Così la professoressa Tetyana Falalyeyeva, direttrice del dipartimento di Biomedicina della Taras Shevchenko National University di Kiev racconta il viaggio che l’ha portata fino all’università Magna Graecia di Catanzaro dove è stata accolta, insieme a tre studenti di medicina, grazie a un corridoio umanitario accademico realizzato nell’ambito del progetto Erasmus e coordinato dal Prof. Ludovico Abenavoli, docente di Gastroenterologia.
Attualmente la professoressa Falalyeyeva svolge seminari e ricerche sulla prevenzione e la correzione della sindrome metabolica e dell’obesità e, allo stesso tempo, continua ad insegnare online ai suoi studenti dell’università di Kiev, con un pensiero alla sua famiglia e ai suoi amici, ancora nella Capitale ucraina, e ai suoi colleghi, alcuni in guerra per difendere il Paese e altri in prima linea per fare in modo che gli studenti ucraini non si vedano negare il proprio diritto allo studio, nonostante le bombe.
Una mobilità internazionale imposta dalla guerra invece che frutto di una scelta, come avviene di solito con la partecipazione al programma Erasmus. «Questa non è la situazione in cui qualcuno sta a casa e aspetta quando si assegnano le borse di studio. Immaginiamo che tutti gli studenti aspettino sotto le bombe o mentre si trovano nei centri di accoglienza per rifugiati. Adesso si tratta di mettere al sicuro le professoresse con le proprie famiglie», spiega Olena Motuzenko, docente di Geografia della Taras Shevchenko National University di Kiev. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, la professoressa Motuzenko si è subito attivata per garantire agli studenti e alle sue colleghe la possibilità di portare avanti le proprie attività di studio e ricerca lontano dalla guerra. Prima di lasciare il suo Paese, tra enormi difficoltà e tantissimi chilometri a piedi fino alla Romania, insieme alla sua famiglia e due studentesse in fuga, ha ricevuto dall’università di Kiev l’incarico di organizzare e coordinare i “corridoi umanitari accademici”, un’iniziativa che permette di accogliere, negli atenei italiani, docenti e studenti ucraini e consente loro di ricevere delle borse di studio.
È con l’università di Perugia che sono stati avviati i primi accordi per dare vita a un corridoio accademico umanitario. L’offensiva delle truppe russe contro l’Ucraina era appena iniziata. Come spiega Stefania Stefanelli, docente di Diritto privato e delegata per il settore Internazionalizzazione e cooperazione internazionale dell’università degli studi di Perugia: «durante un incontro online con il Rettore dell’università degli studi di Perugia, il Prof. Maurizio Oliviero, il Rettore dell’università di Kiev ha affidato al nostro Rettore, in rappresentanza di tutta la comunità accademica italiana, l’accoglienza e la protezione dei loro studenti e dei loro docenti perché lui, da quel momento, avrebbe smesso di fare il Rettore e avrebbe iniziato ad essere un soldato della sua Patria». In quella stessa occasione la professoressa Olena Motuzenko è stata indicata come referente per tutte le università ucraine. «Con Perugia abbiamo realizzato un modello bellissimo»: racconta Olena Motuzenko. Una vera e propria rete per l’accoglienza frutto della collaborazione tra gli enti locali, quelli privati, le fondazioni, le organizzazioni e le Onlus del territorio che hanno agevolato la ricerca degli appartamenti. «C’è stato anche un appello al quale hanno risposto degli imprenditori offrendo borse di tirocinio oltre che vitto e alloggio agli studenti che arriveranno a studiare da noi», aggiunge la professoressa Stefanelli.
Obiettivo principale: permettere a docenti e studenti in arrivo nel nostro Paese di portare avanti i propri studi e le proprie ricerche per poi rientrare in Ucraina non appena la guerra sarà finita o le condizioni lo consentiranno, con un notevole arricchimento culturale per entrambe le parti grazie alla condivisione di esperienze e competenze in grado di valorizzare l’offerta formativa.
Un’altra storia proviene dall’università di Udine. «Passavamo le giornate in cantina a volte seduti per metà giornata, a volte tutta la notte. Non c’erano acqua, gas, luce e avevamo tanto freddo. Le truppe russe avevano occupato, a soli tre chilometri dalla nostra casa, l’aeroporto e lo avevano utilizzato come base per il loro attacco. Mriya-Antonov-225, il più grande aereo da trasporto a sei motori è stato distrutto dai russi». Così comincia il racconto della fuga dalle zone di guerra in Ucraina della professoressa Ganna Stovpchenko insieme al marito Lev Medovar, la figlia e i nipoti.
I coniugi sono i principali esperti del Paton Welding Institute di Kiev, conosciuti nell’ambito della «tecnologia Electroslag – uno strumento per la raffinazione dell’acciaio e per l’eliminazione di additivi nocivi». Ganna Stovpchenko e Lev Medovar sono arrivati come visiting professor con un progetto di ricerca di Fabio Miani, professore di Metallurgia del Dipartimento Politecnico di Ingegneria e Architettura di Udine che afferma: «sono i soli professori accolti presso questa università».
Tanti giorni hanno dovuto attendere prima di abbandonare la propria città. «Finalmente il 9 marzo riusciamo a scappare» racconta Stovpchenko. «Siamo partiti in macchina con pochi bagagli – prosegue il marito – Abbiamo lasciato tutto, anche il nostro amorevole cane. La nostra anima è a Bucha. Ancora oggi il rumore di un aereo ci fa paura. Questa guerra ha dell’incredibile: il 18 febbraio eravamo rientrati a Bucha dopo un viaggio di lavoro a Bratislava dove avevamo discusso di future collaborazioni con alcuni colleghi e il 24 febbraio, quarantuno anni dopo il primo attacco di Hitler alla Russia, durante la seconda guerra mondiale, alle cinque del mattino, c’è stata la prima bomba a Kiev. Le prime persone che fuggivano erano visibili dalla nostra casa. Hitler non aveva mai nascosto i suoi obiettivi, anzi li aveva descritti anche nel suo libro “Mein Kampf”. Putin è peggio perché ‘promuoveva democrazia e pace’, ma ha portato solo morte. Tutti insieme forse possiamo fermarlo».
Fuggire è stato possibile «con l’aiuto di persone che nemmeno ci conoscevano ed alle quali siamo profondamente grati», spiega Ledovar. «Loro sono diventati nostri amici e li sentiamo molto vicini. Le persone che abbiamo incontrato si sono prese cura di noi, la loro ospitalità ci ha scaldato il cuore e ci ha dato la forza per rimetterci in moto. Il 21 marzo abbiamo raggiunto Udine dove ci occupiamo di ricerca nel campo dell’energia sostenibile nell’ambito di progetti europei come l’Horizon».
Tante le difficoltà che il professor Miani ha incontrato per accogliere i due docenti. Numerose email si sono susseguite per molto tempo. «Dopo un primo contatto con Ganna e Lev c’è stata una pausa di alcune settimane – chiarisce il professore – fino a quando sono stati accolti nella casa a Tricesimo, in provincia di Udine, messa a disposizione dal professor Pietro Piussi, docente dell’università di Firenze che aveva conosciuto molto bene mio padre durante la seconda guerra mondiale ed erano diventati grandi amici».
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