«Non so dove andare, cosa fare. Non so che ne sarà del mio futuro». Occhi celesti, viso imberbe, il corpo esile racchiuso in una tuta da ginnastica troppo grande. Arseny, 15 anni, parla a testa bassa e si copre le mani con le maniche della felpa. Alza lo sguardo e si rilassa soltanto quando incrocia il volto di Igor, il mediatore linguistico che traduce in ucraino voce e pensieri.
A Kharkiv, ha lasciato la vita di prima. La scuola musicale, il tennis e progetti per il futuro sono sbiaditi tra i fumi delle bombe. Anche il papà, nascosto in un capannone, è rimasto là. Lui è fuggito su un treno insieme alla madre in un viaggio estenuante lungo quindici ore fino in Ungheria, e grazie all’aiuto di «persone molto buone» è salito su un aereo per Roma, dove li attendeva una zia.
Disorientati da una lingua sconosciuta, e senza vaccinazione anti-Covid, madre e figlio sono stati aiutati dalla Protezione Civile e dalla Croce Rossa. «Poi, mia madre mi ha iscritto a una scuola di italiano per stranieri. Lì mi hanno indicato il liceo Newton». Inserito nella classe prima, esprime le difficoltà di apprendimento della lingua («con i compagni comunico con il traduttore automatico») e del programma confuso di matematica («troppi esercizi e poche regole, al contrario dell’Ucraina») ma apprezza la durata delle lezioni («in Ucraina, otto ore al giorno, qui solo cinque»).
«Mi sono trovato subito molto bene con i compagni. Sono stati tutti molto amichevoli e mi hanno fatto anche dei regali. In Ucraina, se sei nuovo, ti prendono in giro. E ho capito come si sente un alunno pessimo, che non ha studiato e non capisce niente. Io in Ucraina ero tra i migliori studenti». Il trauma del distacco improvviso dalla quotidianità è ricorrente nel racconto di Arseny. «ll giorno prima andavo a scuola insieme ai miei amici, quello dopo eravamo tutti in diverse città d’Europa. Ora ogni tanto ci sentiamo, ma non so se ci rivedremo più».
A mancare al ragazzo non sono soltanto le persone, «non ho più neanche la mia chitarra» dice. La vicepreside interviene informandolo del fatto che ai pieni inferiori c’è un’aula di musica: «Se vuoi puoi prendere la chitarra e suonare», ma il ragazzo non sembra convinto. Forse per lui le corde di un’altra chitarra non vibrerebbero della stessa musica che suonava in Ucraina.
Per Artem, 6 anni, e Katerina, 8 anni, non c’è spazio per la nostalgia, ma solo per la meraviglia. Scappati dall’Ucraina insieme alla madre, hanno raggiunto la nonna in un piccolo paese della provincia umbra, San Venanzo. «A ricreazione, i bambini li hanno sin da subito coinvolti nei giochi all’aperto, “un, due, tre stella” e “sacco pieno, sacco vuoto”» racconta Venanzina Mortaro, maestra dell’Istituto Laporta. «Anche dal punto di vista della comunicazione non abbiamo avuto particolari problemi, Katerina conosce bene l’inglese e così interagisce con gli altri bambini. Artem, invece, non lo conosce, ma attraverso card e piccoli escamotage visivi riusciamo a non farli sentire isolati».
La scuola porta avanti anche un progetto di orto-giardinaggio, e quando le barriere comunicative diventano più limitanti «scendiamo in cortile e quel lieve accenno di imbarazzo che provano nel non riuscire a farsi capire scompare». La generosità dei nuovi compagni di classe che Artem e Katerina hanno incontrato in questa transizione verso una nuova vita si è concretizzata in gesti semplici, ma più eloquenti di quelle parole nuove e sconosciute ai due bambini. «Qualche giorno dopo il loro arrivo c’è stato il compleanno di Katerina. Abbiamo organizzato una piccola festa con succhi di frutta e cioccolatini e abbiamo fatto spegnere alla piccola una candelina». Quando lo racconta, Venanzina è quasi commossa, un’emozione che non si affievolisce neppure quando racconta della gara di solidarietà tra i genitori degli altri studenti: «Artem e Katerina sono arrivati con degli zaini di tela, molto modesti, e nessun materiale scolastico. La mattina dopo i bambini hanno portato chi uno zaino, chi un pacchetto di pennarelli, chi un quaderno».
Sullo sfondo, sempre l’Ucraina, che scatena nei piccoli sentimenti contrastanti: «Ricorda Artem, siamo ucraini» ha detto la madre al suo bambino visibilmente intimorito il primo giorno di scuola. Gli occhi velati di tristezza hanno ritrovato così la forza d’animo e il coraggio «e le lacrime sono tornate nella rima dell’occhio».
Questo quadro, però, resta monco della cornice: al rientro dalle vacanze di Pasqua, Katerina e Artem non sono più tornati a scuola, partiti per non si sa dove, senza avvisare nessuno.
Le porte rosse dell’Istituto Vittorini, a Siracusa, sono invece ancora adornate di arcobaleni e aquiloni. Una carezza per otto bambini arrivati da lontano. Due sono russi, sei ucraini, divisi dal conflitto ma uniti nella pacifica convivenza siciliana perché «noi siamo contro la guerra, e non siamo contro qualcuno o a favore di qualcun altro» spiega la preside Pinella Giuffrida, che ha accolto i piccoli nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria.
Da Mosca, due fratellini sono scappati con il papà, che temeva di essere arruolato, e con la mamma, una giornalista che temeva di essere arrestata perché contraria alla guerra. Da Kharkiv, Anna, 9 anni, e mamma Natalia hanno compiuto un viaggio mirabolante per dimenticare una città che ormai non c’è più. «Nel nostro primo incontro ai giardinetti, Natalia era terrorizzata. Tra le lacrime, ha ricordato i giorni infiniti nei rifugi, schiacciate sottoterra, e il crollo del palazzo di otto piani dove c’era la loro casa». Da Kiev, la macchina guidata dalla sorella maggiore ha messo in salvo i fratellini Antonio, 6 anni, e Adelina, 5 anni, la cuginetta Nicole e i nonni. «I genitori, però, sono rimasti in Ucraina».
Per alleviare le sofferenze dei bambini, Giuffrida ha ideato il progetto di accoglienza La cura delle ferite di guerra, che ha coinvolto genitori e alunni nell’organizzazione di una grande merenda di benvenuto nel parco della scuola tra palloncini e giochi. «I piccoli non avevano niente, solo una borsa con un cambio sporco, già usato. I compagni hanno regalato loro zaini, portacolori e vestiti. Hanno pensato a tutto: il primo giorno di lezione, i bambini più grandi indossavano la felpa e la maglietta della scuola, mentre i più piccoli il grembiule a quadretti».
Oggi, con l’aiuto dei compagni, degli insegnanti e dei mediatori culturali, i bambini frequentano le lezioni di educazione civica, educazione all’immagine, musica, informatica e matematica. «La maestra di Storia dell’Arte ha spiegato la Primavera di Botticelli grazie a un video su YouTube con i sottotitoli in ucraino. Un’esperienza che ha unito tutti, perché i bambini italiani hanno ascoltato la lezione in italiano, mentre i bambini ucraini hanno letto il testo in ucraino, guardato le immagini e ascoltato le musiche». Tra gli obiettivi del progetto c’è anche il superamento delle barriere linguistiche, e dove il traduttore automatico non basta sono previsti un corso di italiano (organizzato anche per le mamme) o, per i bambini più grandi, lezioni in inglese.
La scuola cura anche il benessere piscologico dei bambini, non solo «in un’aula attrezzata con materassini, giochi e strumenti musicali in cui i piccoli entrano senza scarpe e si esprimono liberamente», ma anche «durante l’ora di giardinaggio, in cui i bambini parlano nella loro lingua e pensano di non essere capiti, il che consente di intercettare le loro paure». Il trauma della guerra è vivo: «I più grandi temono il futuro, hanno paura di perdere il genitore lontano e di non tornare a casa. I più piccoli, invece, in apparenza giocano e socializzano, ma in realtà sono estremamente vulnerabili, hanno paura del buio e del rumore, probabilmente per i ricordi dei rifugi e delle bombe». Tra tutti, «Antonio e Adelina, lontani dalla mamma e dal papà, sono diversi dagli altri bambini. Vivono momenti splendidi con i compagni, ma soffrono tanto, sono emotivamente scossi e disperati, e talvolta scoppiano a piangere all’improvviso».
I due fratelli sono ospitati dalle famiglie dei compagni di banco, che con loro condividono la stanza, i giochi, i compiti e le ore di equitazione, piscina e danza. Un progetto notevole, reso possibile dall’esperienza perché «a Siracusa siamo già abituati ad accogliere i bambini che arrivano sui gommoni». Per Giuffrida, «tutti ci hanno guadagnato. I nostri bambini sono felicissimi, e fanno a gara per essere accoglienti. Sono diventati più sensibili non solo nei confronti della pace, ma anche nei confronti di chi soffre. Hanno capito che per aiutare bastano un sorriso e un abbraccio e che è importante ciò che si dimostra nei confronti degli altri».
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