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Esclusiva

Maggio 5 2022
«Non cedere al sensazionalismo vi ripagherà»

Maria Grazia Murru e Andrea Rosa, giornalisti dell’Associated Press, raccontano alla redazione di Zeta come lavora l’agenzia di stampa più grande del mondo

«L’obiettivo dell’Associated Press è quello di arrivare nel modo più rigoroso possibile alla fonte primaria delle notizie. Sono i nostri contenuti che permettono ai professionisti dell’informazione di poter raccontare ciò che accade. Chi ha provato a fare senza, come la CNN, è tornato sui propri passi». Maria Grazia Murru lavora da quasi trent’anni per l’agenzia di stampa internazionale più grande del mondo. Come Senior Producer journalist si occupa di dirigere la sede di Roma che copre tutta l’area mediterranea. Nell’incontro con la redazione di Zeta, assieme a un collega dha raccontato l’unicità del contributo che l’agenzia dà al giornalismo ogni giorno.

«Nel portfolio clienti abbiamo circa 8500 piattaforme mediatiche. Siamo totalmente indipendenti nel flusso di notizie in quanto possiamo contare su un editing board che ogni giorno decide la gerarchia dei fatti. Le nostre stelle polari sono l’accuratezza delle fonti e la chiarezza nell’esposizione dei fatti, che deve essere scevra da bias di tipo politico o religioso». Per non dare una notizia che rischia di essere smentita, L’AP preferisce arrivare in ritardo rispetto ai broadcaster o alle altre agenzie. «Quando alle elezioni americane sanciamo la vittoria in ogni stato, quel dato viene riconosciuto da tutti. Questo perché i nostri uomini ai seggi seguono meticolosamente ogni passaggio degli spogli: un lavoro certosino che si avvale dello sforzo di migliaia di collaboratori».

Un’eccellenza riconosciuta tale che segue un modus operandi imprescindibile. «C’è sempre un bilanciamento: se critichiamo qualcuno gli diamo la possibilità di dare la sua opinione, che viene riportata nel servizio. Se preferisce non intervenire, specifichiamo che la persona tirata in ballo ha preferito non commentare la questione. I nostri abbonati, in ogni caso, sanno che abbiamo provato a coinvolgere anche l’altra parte».

Le difficoltà da affrontare non mancano. «I video amatoriali sono il nostro incubo. Quando accade un disastro naturale ci bombardano di contenuti. Ma bisognare stare attenti: si rischia di cadere in un mare di squali. La maggior parte di ciò che arriva in redazione non è autentico. Ce ne rendiamo conto ogni volta. Come si verifica quindi? Il metodo negli anni non è mai cambiato: si alza il telefono. Soltanto chiamando le autorità, i colleghi e gli abitanti sul posto è possibile accertarsi della veridicità dei contenuti che finiscono sui nostri schermi. Per molti significa perdere tempo nella corsa alla notizia, per noi invece significa investire sulla rispettabilità del lavoro che svolgiamo. Sono le persone a fare la differenza».

Una filosofia del lavoro che è stata sposata in pieno anche da Andrea Rosa, appena tornato da una lunga trasferta in Ucraina. «Prima di entrare come stagista in Associated Press non avevo mai girato alcun video. Lavoravo soltanto abbinando la scrittura alla fotografia. La scintilla per questo tipo di giornalismo è scattata quando un reporter turco, che aveva lavorato avventurosamente in tutto il mondo, mi consigliò di rivolgermi all’agenzia. Dopo aver bussato a tante porte, finalmente riuscii ad aprire un portone. Dagli scatti alle immagini in movimento: con Maria Grazia e gli altri miei colleghi ho imparato a muovermi su terreni inesplorati con passione e rigore».

Ma cosa significa davvero stare sul campo? «È come vivere in una bolla: hai cognizione di ciò che hai davanti ma ignori ciò di cui parla il resto del mondo. Il 2 aprile, entrati a Bucha dopo aver percorso una lunga strada alternativa, io e i miei colleghi siamo stati i primi a documentare la fossa comune nella quale erano stati ammassati i 68 cadaveri dei civili di cui avete visto le immagini. Una fossa comune scavata dai civili ucraini in mancanza di spazi liberi nell’obitorio cittadino. Quella di cui avete visto le immagini era la fossa scoperta ma ce n’era anche una coperta. Soltanto parlando con chi era rimasto all’interno del villaggio siamo riusciti a ricostruire chi effettivamente aveva ammassato quei corpi. È un privilegio avere possibilità professionali del genere. Ma anche una enorme responsabilità. Perché solo tu puoi trasmettere quel patrimonio di testimonianze».

L’occupazione militare delle truppe russe in Ucraina si è dimostrata feroce. C’è un divario abissale tra i numeri dei corridoi umanitari verso la Russia e la Bielorussia e quelli verso l’Europa occidentale. «Gli occupanti hanno messo i loro quartier generali nelle scuole dei villaggi, parcheggiando i blindati nei vialetti delle case della gente. Si sono appropriati degli spazi vitali dei civili. La maggior parte degli ucraini si rifiuta di venire trasportato oltreconfine da di chi ha invaso la loro terra». Durante gli anni trascorsi in Medio Oriente per coprire la guerra siriana ha avuto l’occasione di intervistare due componenti dei cosiddetti “Beatles”, ossia i foreign fighters inglesi che si occupavano di mozzare le teste dei prigionieri in tuta arancione dell’ISIS.

«Quei boia avevano giustiziato anche dei colleghi di cui ero amico. Non è stato facile averli di fronte. Ma un vero giornalista deve saper fare i conti anche con le sensazioni disturbanti». Ed è questo il tema su cui Rosa si è voluto soffermare. Come confrontarsi con l’orrore e l’ingiustizia? «Puoi provare empatia per chi ti circonda ma bisogna sempre rimanere professionali. In Ucraina ho assistito a delle scene sconvolgenti che mi hanno spinto a posare la telecamera a terra per intervenire in aiuto di anziani e disabili in fuga dalle bombe. In quel momento ti spogli dell’abito del giornalista e dai una mano. Rispettate la dignità umana, in tutte le sue forme. Non cedete al sensazionalismo. Vi ripagherà. Mostrare il particolare macabro non aggiunge nulla al vostro lavoro. Per quello c’è il cinema horror. Si può restituire la sofferenza senza spettacolarizzarla: è ciò che facciamo all’AP».