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Esclusiva

Maggio 24 2022.
 
Ultimo aggiornamento: Ottobre 9 2022
La scalata verso un nuovo mondo al centro della Croisette

La settantacinquesima edizione del Festival di Cannes è una festa di corpi affollati e ritrovati, una celebrazione del cinema, tra sogno e attualità

Insieme, mani nelle mani, è così che si sale su per la Montées des Marches, prima di voltarsi un’ultima volta a guardare i fotografi e la folla intorno. Il red carpet di Cannes ha un suo rito preciso e sacro, è un’ascesa verso un’altra dimensione, non solo l’Olimpo dei divi, ma più una dichiarazione di intenti: il cinema che si fa strumento di una rivelazione, di un altro modo per scoprire la realtà.

Le scale, simbolo indiscusso del Festival, in occasione della settantacinquesima edizione compaiono anche nel poster ufficiale che invade la città, azzurrissimo come il cielo di Cannes in questi giorni. Sono quelle della celebre scena finale del Truman Show di Peter Weir, «una celebrazione poetica dell’inafferrabile e della libertà. Una scalata per sovrastare il passato e avanzare verso la promessa di rinnovamento», come afferma la presentazione ufficiale della locandina.

Una promessa che si mantiene nella gioia di ritrovarsi di nuovo vicini, senza barriere, all’interno del Palais des Festivals, in sala stampa e per le strade. Dopo l’edizione spaesata e fuori dall’ordinario dello scorso luglio, quando il glamour della Croisette strideva con la curiosità e il caos dei turisti in ciabatte, il Festival ritorna ai fasti dei suoi giorni di maggio, assoluto protagonista della città per circa due settimane. Svanisce anche lo spettro del Covid, lasciando che ai tendoni per i tamponi si sostituisca un grande “Villaggio internazionale”, in cui incontrare le Film Commission di tutto il mondo, tra un bicchiere di vino e un po’ di musica.

La scalata verso un nuovo mondo al centro della Croisette
Festival di Cannes 2022

I corpi affollati non hanno più paura e tornano a condividere anche lo spazio intimo della sala cinematografica, riuscendo di nuovo a leggere tutte le emozioni dei titoli di coda sui volti degli altri. La settantacinquesima edizione coincide così con la celebrazione del contatto, dell’esperienza fisica di una rinnovata presenza che si riscontra anche nei film proiettati in questi primi giorni. Storie che tornano di continuo al corpo e alla sua fisicità. Dalla passione irrefrenabile di Les Amandiers di Valeria Bruni Tedeschi, alla strage del Bataclan di Novembre di Cédric Jimenez, fino all’attesissimo ritorno di David Cronenberg con il body horror Crimes of the Future.

I maggiori film del primo weekend

«Oggi è un grande giorno per il cinema iraniano, perché almeno per una volta, in un film, le donne hanno un vero corpo». Ali Abbasi, per la prima volta in concorso a Cannes, sceglie di dedicare alle donne e all’emancipazione femminile anche attraverso l’arte, il ringraziamento al termine della proiezione del suo Holy Spider. Un thriller che si dispiega nelle notti di Mashhad, a caccia di un assassino che crede di agire per conto di Allah, ripulendo la città sacra iraniana dal peccato della carne. Le sue vittime, solo prostitute, nel rapporto con i loro corpi abbattono le rappresentazioni stereotipate delle donne in chador. Le mostrano nella loro multidimensionalità, prima di tutto.

Per la sua struttura solida e avvincente e per una regia e un punto di vista che hanno conquistato il pubblico di Cannes già dalla prima proiezione, Holy Spider entra nel vivo della competizione per la Palma d’oro, nonostante all’inizio uno dei nomi più probabili per la vittoria fosse Christian Mungiu con R.M.N.

Festival Cannes 2022
Festival di Cannes 2022

Il regista rumeno, già premiato al Festival nel 2007 con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, quest’anno presenta un ritratto vivido e spietato di un piccolo villaggio della Transilvania. Come la risonanza magnetica a cui il titolo fa riferimento, Mungiu scansiona le dinamiche, fragili e al tempo stesso inscalfibili, della comunità. Le poche decine di abitanti “serrano la falange” e rigettano i tre uomini srilankesi assunti come panettieri della fabbrica locale. Impauriti e ignoranti – anche i più istruiti – faticano a mangiare il pane toccato da mani straniere, nonostante la Transilvania sia per storia e cultura, una terra di mezzo e di incontro fra popoli, come sottolineano anche le diverse lingue parlate nel film. R.M.N. mette così in scena un microcosmo che racconta bene il razzismo e la xenofobia su ogni scala. Nei panni complessi del protagonista maschile, Marin Grigore ha affermato in conferenza stampa che l’obiettivo di Mungiu era quello di fargli perdere precisione, spaesarlo e renderlo più simile al personaggio, poco cosciente di sé: «mi ha fatto sentire insicuro e questo mi ha portato in una direzione che non mi aspettavo di prendere».

Le reazioni più forti del fine settimana sono però arrivate da un film molto diverso, intimo e universale al tempo stesso: Les Amandiers di Valeria Bruni Tedeschi. Il sesto lungometraggio della regista italiana, naturalizzata francese, racconta e reimmagina la sua stessa esperienza, negli anni Ottanta, al Théâtre des Amandiers, la scuola drammatica nazionale di Patrice Chéreau e Pierre Romans. Ogni fotogramma, anticato dalla grana “di pellicola”, trasporta in un mondo bohémien di istinti, passioni, desideri catalizzanti. Il teatro, come la vita, si respira e si vive dall’inizio alla fine, come un sogno, come un bisogno. E le lacrime incontenibili degli attori e delle attrici a fine proiezione ne confermano la forza e la portata emotiva.

Al contrario, un altro film francese da cui ci si aspettava qualcosa di più è il nuovo di Arnaud Desplechin, Frère et soeur, con Melvil Poupaud e Marion Cotillard nei panni di un fratello e una sorella legati da un amore così smodato da trasformarsi di colpo in odio profondo e persistente. Una storia complessa di sentimenti e inadeguatezze personali, che però non riesce a portare in superficie le motivazioni che animano i personaggi, perdendosi nelle intenzioni.

Un po’ di Italia a Cannes

Le pagelle dei critici francesi sono state impietose, a differenza della Giuria che l’ha premiato, eppure uno dei film più commoventi e significativi di questa prima metà del Festival è stato Le otto montagne di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, con Alessandro Borghi e Luca Marinelli. Tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti, Premio Strega nel 2017, la co-regia di Van Groeningen e Vandermeersch intreccia due filoni principali. Il racconto della montagna come personaggio a sé – la cui anima emerge potente dalle immagini nitide e poetiche dei paesaggi, a confronto con l’irrisoria presenza dell’uomo – e la profonda amicizia tra Bruno (Borghi) e Pietro (Marinelli), che porta avanti la narrazione e mette in scena una relazione maschile, affettuosa ed emotiva, ancora sottorappresentata eppure necessaria.

Più artefatto, invece, è l’esperimento di Jasmine Trinca, quest’anno anche membro della giuria, dal titolo Marcel!, la sua opera prima presentata fuori concorso tra le proiezioni speciali. Marcel! è una fiaba onirica, lontana da qualsiasi pretesto di verosimiglianza con la realtà. Le protagoniste, Madre e Figlia (Alba Rorhwacher e Maayane Conti) non hanno un nome, sono due figure ambigue, dai contorni poco definiti. Buone, cattive, non ha importanza. Si muovono come pedine su un tabellone, mosse da una scrittura rigida e divisa per capitoli didascalici – dieci dei sessantaquattro esagrammi dell’I Ching – in cui però riescono a entrare a stento, cercando una via di fuga. È la storia di due artiste di strada, una donna e una bambina, libere ma incatenate da una forma di amore che non sa maturare e le condanna all’infelicità. Marcel è l’unico nome pronunciato nel film ed è quello del piccolo cane che ha concorso anche a uno dei premi più curiosi del Festival: il Palm Dog Award, destinato alla migliore esibizione canina.

Una finestra sul mondo

«All’arte si deve la vita» affermano più volte la Madre e la Figlia in Marcel! E arte e vita si sovrappongono anche sulla Croisette, sui cui sono puntati gli occhi del mondo in questo giorni, rendendola il palcoscenico ideale da cui lanciare messaggi. Un’immagine che rimarrà a lungo impressa, da questo punto di vista, è quella dell’attivista del collettivo francese SCUM che, strappandosi il vestito sul red carpet ha mostrato sul petto nudo la scritta Stop raping us, coperta solo dalla vernice gialla e blu della bandiera ucraina e quella rossa del sangue tra le gambe. Il riferimento è agli stupri di guerra dei militari russi e la protesta è durata solo pochi secondi, ma è bastata per riportare il dramma pulsante del conflitto in corso all’interno dell’evento, al di là della proiezione, già programmata per quello stesso giorno, di Mariupolis 2, la raccolta del materiale girato dal regista Mantas Kvedaravičius, ucciso dai russi a Mariupol lo scorso aprile. «Mariupolis 2 era necessario da mostrare, per questo l’abbiamo aggiunto al programma», afferma l’organizzazione del Festival. E se all’arte si deve la vita, il grande cinema, come quello di Cannes, prova anche a restituirla, affidando la memoria di decine e decine di storie a un pubblico che sappia prendersene cura.

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