Farah Kafei e Valentina Vergara sono designer, si stanno per laureare. Sfogliando i manuali che le hanno accompagnate nel percorso di studi trovano solo nomi di uomini, per lo più bianchi, copia perfetta del “maschio occidentale”. Quando sollevano lo sguardo sulle persone che sono nella stanza si accorgono di un altro mondo: al Pratt Institute di Brooklyn ci sono soprattutto donne, la composizione etnica è variegata, le esperienze di vita e di lavoro non possono essere assimilate le une alle altre.
«L’idea nasce da loro, mi sono fatta influenzare dall’energia che aleggiava nella stanza. Non ci ho pensato due volte, mi sono avvicinata e ho detto ‘hey, vi va se facciamo un libro insieme?’». Ellen Lupton è una designer, insegnante e ricercatrice dall’entusiasmo naive, al limite dell’impertinenza. Si riconosce per il sorriso nervoso, i capelli corti biondo platino e la voce squillante. Quando arriva davanti alla platea per presentare il suo libro sembra portare concentrate in sé tutte le istanze, idee, contributi ed energie dei sette autori e ben 81 collaboratori che hanno lavorato a “Extrabold, una guida femminista inclusiva antirazzista non binaria per graphic designer”.
È un testo corale, «in parte saggio e in parte fumetto, zine [rivista improvvisata ndr.], manifesto, guida per la sopravvivenza e manuale di autoaiuto». Le teorie su femminismo, razzismo, disabilità e pensiero non-binario sono il punto di partenza per ripercorrere la storia del design, e si intrecciano in ogni pagina con esperienze di lavoro raccontate in prima persona da giovani appartenenti a gruppi marginalizzati.
Il testo si rivolge soprattutto ai designer che stanno iniziando il loro percorso, ma questo non impedisce a chi di design sa poco o niente di entrare nelle storie e subire uno stravolgimento nel modo di concepire oggetti e spazi.
«Immaginate di andare a prendere un caffé con me in una lussuosa caffetteria di San Francisco […]. Prendete il caffé, salite uno, due, tre gradini, vi girate e notate che io non vi sto seguendo […]. Le scale non sono progettate per gambe come le mie. Oggi la normalità si si concretizza nella progettazione di luoghi; la logica eugenetica non è affatto scomparsa dopo la seconda guerra mondiale»
È il racconto di Josh A. Halstead che oggi non sarebbe un designer se sua madre «non avesse inventato un modo per farmi disegnare». Grazie a un polsino, Josh ha potuto effettuare un’azione all’apparenza ordinaria. «Ero disabile non perché non riuscissi ad afferrare una penna ma perché non c’era una penna pensata per una mano che non potesse impugnarla». I racconti e gli aneddoti (contemporanei e storici) della diversità arricchiscono con punti di vista nuovi e mostrano come gli oggetti che usiamo e i luoghi che abitiamo siano espressione di rapporti di potere consolidati.
«La mancanza di diversità in termini di razza, etnia e genere ha portato a una mancanza di diversità nel pensiero, nei sistemi (come quello educativo), nelle idee e, infine, nelle creazioni».
In un edificio, la presenza di scale come unico modo per salire al secondo piano nasconde un pregiudizio: tutti sono in grado di poggiare un piede sul primo gradino. In un testo come questo il fatto che ci siano Maiuscole, minuscole, font con o senza grazie, tondo (roman) e corsivo (italic) è lo specchio di come pensiamo la società sempre divisa in due: maschile/femminile, io/l’altro.
Le illustrazioni rappresentano il cuore del libro, intrecciate con armonia al testo, sono originali, chiare e rendono visibili concetti che, soprattutto a chi non appartiene a gruppi marginalizzati, possono apparire fumosi.
Così la teoria dell’intersezionalità (il fatto che gli individui sperimentano più forme di oppressione allo stesso tempo) è spiegata come un insieme di strade colorate che si intersecano;
la differenza tra uguaglianza ed equità diventa un piccolo dialogo illustrato;
il mansplaining, «spiegazione eccessiva e non richiesta» come sfoggio di potere è un ironico diagramma;
le diverse sfumature che possono assumere l’identità di genere e l’orientamento sessuale sono «un glossario in continua evoluzione».
Il design viene definito «una pratica queer (strana, difforme)». «I designer cercano di affrontare i problemi da diverse angolazioni e guardano ogni pagina, prodotto o processo come qualcosa che potrebbe essere cambiato, migliorato o messo da parte» ed è la «volontà di vivere in modo diverso» che «potrebbe essere la chiave per la sopravvivenza umana».
Agevolare il processo di creazione del designer e, in generale, di chiunque faccia un lavoro creativo capace di influenzare e innovare la società passa per un contesto lavorativo non-escludente. Per questo, alla fine, “Extrabold” si trasforma anche in guida pratica e illustrata su come fare coming out con i colleghi, su come gestire la mancanza di fiducia che caratterizza soprattutto le donne e i membri dei gruppi marginalizzati (confidence gap), fino a esempi pratici sullo scrivere una buona lettera di presentazione o strutturare una conferenza in modo efficace.
«Lavorare a questo libro mi ha fatto cambiare il prospettiva sul design» dice Lupton. «Essere inclusive quando si progetta qualcosa vuol dire ascoltare le voci di chi partecipa alla discussione e, soprattutto, quella di chi rimane in silenzio nella stanza». Per l’ideatrice del testo ciò «non accade senza intenzione. Siamo tutti portati a progettare per noi stessi, è nella nostra natura. Per cambiare la società, accorgerci delle norme che ci condizionano, ci vuole uno sforzo, dobbiamo volerlo con molta intensità».
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