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Esclusiva

Febbraio 1 2023
Un’adolescenza in trenta centimetri quadrati

Prigioniero politico, incarcerato all’età di 17 anni, contro il regime egiziano ad Abdelrahman rimane solo la forza della sua scrittura

«Forse una bara sarebbe stata più spaziosa», dice ridendo Abdelrahman pensando alla cella egiziana in cui ha vissuto per sei anni come prigioniero politico e ai trenta centimetri quadrati che gli spettavano. Poco meno del tavolo da gioco del Monopoly. Casa, scuola, lavoro, prigione. Tutto però nella stessa casella.

“Era il 6 ottobre 2013 e avevo 17 anni. Invece che svegliarmi nel mio campus per il primo giorno di università, ho aperto gli occhi, di fronte a me delle sbarre e ai polsi delle manette”. Al tempo Abdelrahman si è appena iscritto all’Università Tedesca de Il Cairo. La strage di Rabaa, dove morirono tra le 600 e 800 persone, ha poco prima scosso la sua vita. Tra le vittime anche il padre di un suo amico. Da lì il desiderio di manifestare nel quartiere di Ramsis con un corteo pacifico, concluso con l’intervento della polizia. Al suo termine la capitale egiziana conta 49 morti e migliaia di arresti in più.

Dall’arrivo in prigione Abelrahman dimentica ogni forma di stabilità. «Sono stato spostato in 7 diverse carceri durante i miei 6 anni di prigionia e, in ognuna, la cella cambiava continuamente». Gli spazi sono calcolati al centimetro. Per incastrarsi la cella diventa un groviglio di arti sovrapposti e il terreno di lotta per guadagnarsi un appoggio. «Nessuno spazio per dormire, nessuna condizione igienica, solo molte malattie. Potevamo trascorrere solo un’ora fuori dalla cella, il resto della giornata eravamo impilati con altre decine di prigionieri».

Al di fuori delle sbarre, le guardie non migliorano la situazione. Gli abusi fisici sono all’ordine del giorno, soprattutto durante i primi giorni di prigionia. All’ingresso ogni bene personale è requisito e venduto. «Anche gli abusi verbali erano la norma. Il cibo non era commestibile, potevamo contare solo su quello che i familiari ci portavano da casa. Quando non avevamo visite, era difficile mangiare senza vomitare».

Nella cella si fonde ogni tipo di personalità. «Altri prigionieri politici, di una varietà di ideologie ed estremismi, prigionieri non politici e ogni possibile forma nel mezzo». Per poter sopravvivere Abdelrahman deve contare sulla loro cooperazione. Soprattutto per lo studio. Infatti l’autorità egiziana consente ai detenuti di continuare i loro percorsi di studi. «Durante gli esami, i prigionieri venivano spostati nella struttura di Tora per un mese. Lì i rappresentanti delle scuole potevano amministrare i test».

Un'adolescenza in trenta centimetri quadrati
Prigionieri che dormono, disegno dell’artista ed ex prigioniero politico Yassin Mohamed

Sul detenuto ricade però la responsabilità di ottenere tutto il materiale scolastico e, soprattutto, riuscire a capire come studiare. «Trovare i libri ha richiesto un grande sforzo della mia famiglia, che li raccoglieva tra i miei compagni di scuola disposti ad aiutare. Per poi introdurli nel carcere era necessario una serie di tangenti per avere il via libera delle guardie».

Nella cella però Abdelrahman non ha nessuno che lo aiuto a capire i testi del suo corso di ingegneria meccanica. Ma, soprattutto, non ha spazio. «L’unico modo che avevo per studiare era spostare due miei amici per poter appoggiare la schiena al muro. Di notte, mentre tutti dormivano, mi infilavo sotto il lavandino nell’angolo della cella». L’unico punto in cui una piccola luce al neon si faceva spazio nel buio totale.

Per ricevere i libri Abdelrahman aspetta, di volta in volta, le visite dei suoi genitori. «Durante il processo avevo diritto a una visita a settimana. Dopo, ogni due. Durante le visite dovevamo però stare attenti a ogni parola perché le guardie ascoltavano e, al termine della visita, ne bisognava affrontare le conseguenze». Per Abdelrahman il colloquio con i parenti è l’unico momento di collegamento con l’esterno. «Durante la prigionia ho iniziato a scrivere lettere e articoli per far sapere a tutti la realtà dei fatti. Le nascondevo nei vestiti sporchi, appallottolate nei pantaloni fino all’arrivo di mia madre».

Abdelrahman non sa se la scrittura sia il suo futuro, ma è con la prigionia che capisce essere uno strumento necessario per la sua sopravvivenza. «Non era un vizio o un lamento. Dopo che i miei occhi avevano visto quella realtà per 6 anni, era l’unico modo per non impazzire».

Il 13 giugno 2020 ottiene la libertà. Dalla pena iniziale di 15 anni, un cavillo legale riguardo la sua età al momento dell’arresto ne consente la scarcerazione. Poi, la fuga a Pittsburgh negli Stati Uniti, dove frequenta un corso di scrittura creativa. Del ritorno in Egitto non sa però che pensare. «Tutto dipende dalla situazione politica del paese e dalla mia sicurezza. Il regime ha ormai consolidato le violazioni dei diritti umani e, per ora, non appare alcun desiderio di cambiamento».

L’unica certezza di Abdelrahman è l’insieme di racconti e articoli che riesce a scrivere e diffondere. «Ho perso sei anni della mia vita. Devo riadattarmi a una realtà che non conosco più. Contro il regime che mi ha ucciso e poi costretto a rinascere, mi rimane solo la pressione e la consapevolezza delle mie parole».