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Esclusiva

Febbraio 24 2023
La guerra in onda

In dodici mesi la televisione italiana ha trovato un suo nuovo codice visivo per raccontare il conflitto in Ucraina

Un rosa gialla e una rosa blu strette fra le mani di Tananai prima della sua esibizione alla finale del 73° Festival di Sanremo: è così che i colori dell’Ucraina entrano in prima serata su Rai Uno, in Eurovisione, nel programma di maggiore rilevanza del palinsesto italiano a poche settimane dal primo anniversario dell’invasione russa.

È una scelta personale dell’artista, legata al tema del brano, mentre la discussione sulla presenza politica delle istituzioni ucraine viene messa in discussione fino all’ultimo, criticata, inserita in scaletta all’1.52 di notte e infine concessa oltre le due. Zelensky, che negli ultimi dodici mesi è apparso in video in diverse occasioni di rilievo internazionale, l’ultima in diretta streaming alla cerimonia di apertura del Festival del cinema di Berlino, in Italia si è scontrato con le resistenze politiche del servizio pubblico, lasciando all’Ambasciata ucraina il compito di tradurre la sua lettera e ad Amadeus quella di leggerla poco prima della premiazione di Sanremo.

Se un palco come l’Ariston fosse o meno il luogo corretto da cui lanciare il messaggio di resistenza di Zelensky è una domanda che in Italia ci si è posti soprattutto perché il racconto dell’Ucraina in televisione è stato sempre mediato dall’intervento giornalistico, non dalla voce diretta del Presidente. Già dai primi mesi successivi all’invasione russa, quando prima ancora di Netflix, La7 comprò i diritti della serie Servitore del popolo, in cui Volodymyr Zelensky interpretava il ruolo del Presidente ucraino prima candidarsi davvero alle elezioni, la rete inserì gli episodi all’interno di un programma-contenitore, condotto da Andrea Purgatori, con il compito di introdurre e analizzare la figura e il percorso politico di Zelensky.

Non solo, sempre La7 ha seguito a lungo il conflitto attraverso le testimonianze e i racconti di Francesca Mannocchi all’interno della trasmissione settimanale di PropagandaLive e Rai Uno ha affidato il racconto a una voce “nuova”, ben presto diventata la più riconoscibile della rete: Stefania Battistini. In questa ottica, cioè, il pubblico italiano ha vissuto il primo anno di guerra attraverso la riscoperta dei reportage e del linguaggio documentaristico di approfondimento.

La guerra in tv. Credit arte.tv
Ucraina in tv. Credit arte.tv

Come accadde, in parte, nel 2003 in Iraq con l’attuale direttrice del Tg1 Monica Maggioni – unica giornalista italiana embedded dell’esercito statunitense – Stefania Battistini è il volto associato al racconto della guerra in Rai. A lei fa capo anche un codice visuale che segue regole differenti da quelle del telegiornale convenzionale: la durata e la struttura dei servizi ne fanno un prodotto giornalistico più vicino al documentario cinematografico – come i sei lungometraggi Arte.Tv rilasciati in occasione dell’anniversario del 24 febbraio – che al giornalismo televisivo.

Con Battistini si percorre la linea di combattimento, si entra nelle trincee, si parla con i soldati ucraini. È un conflitto così vicino nel tempo e nello spazio che solo attraverso immagini forti, all’interno dell’azione, si riesce a infrangere la barriera di autoprotezione dello spettatore, immagini come quelle della fossa comune di Bucha (servizio del 4 aprile 2022), in cui la giornalista del Tg1 si trova fra i cadaveri di sette prigionieri catturati dai russi, coperti di terra e sangue, con le mani legate dietro la schiena. Battistini in quanto giornalista non può rinunciare a mostrarle. Nella disponibilità del pubblico televisivo ad accettarle si cela tuttavia un bisogno generale da considerare, quello di immagini il più possibile tangibili e in grado di raccontare una storia che vada oltre il resoconto freddo.

È il principio che prevale nel palinsesto italiano, in cui la prossimità del conflitto ha appunto costretto a una compressione della distanza e del distacco emotivo.

Ucraina in TV, English version: Broadcasting War