Esclusiva

Maggio 10 2023
Non è più lo scudetto del riscatto

Il campionato vinto dal Napoli è frutto di una cultura imprenditoriale che potrebbe trasferirsi anche in altri settori diversi dal calcio

«Abbiamo un sogno nel cuore, Napoli torna campione». Un coro che la curva azzurra ha cantato per 33 anni fino a quando, il 4 maggio 2023, il sogno è diventato realtà. La squadra di Luciano Spalletti ha raggiunto la certezza matematica dello Scudetto dopo un campionato dominato. Mentre in città scoppiava una festa senza fine, l’attore napoletano Vincenzo Salemme scriveva sui propri social una poesia che iniziava così: «Vi prego, adesso non dite che lo scudetto è un’occasione di riscatto». Una tentazione a cui qualche commento di tifosi e non aveva già ceduto, ma che non corrisponde affatto alla realtà. «Il concetto di riscatto fa parte della retorica, ma di una retorica che alla fine è sempre stata piuttosto sterile», afferma Luca Bifulco, professore di Sociologia dei processi culturali presso l’Università Federico II di Napoli. «Intervistando diverse generazioni di tifosi ho riscontrato che la gioia per la vittoria sportiva è molto più legata all’idea di rivincita che non di riscatto», spiega il professore, sottolineando che parliamo sempre di una dimensione sportiva che ha un impatto molto relativo sulle più generali questioni socioeconomiche della città. Una spiegazione che nulla toglie all’esplosione di gioia che ha colpito la città. «Noi viviamo il destino sportivo della squadra come il nostro e questo ci dà autostima, ma la forte componente emozionale ci dà un senso di rivincita solo in maniera vicaria».

L’idea del Sud povero che batte finalmente il Nord ricco fu la narrazione dominante dei primi due scudetti partenopei, quelli del 1987 e del 1990. Del resto il calcio italiano era nato all’interno del triangolo industriale Torino-Genova-Milano e il suo sviluppo era legato a doppio filo agli interessi economici delle grandi industrie. Era inevitabile che la mai risolta questione meridionale si rispecchiasse anche nello sport nazionale e che quindi le vittorie del Cagliari nel 1970 prima e quelle del Napoli poi venissero salutate come un’almeno temporanea rottura di questo tabù.

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Completamente diverso è lo scudetto appena vinto. «La rappresentazione della vittoria degli anni Ottanta era legata alla presenza del miglior giocatore al mondo che veniva a vincere per te», spiega Bifulco. «Maradona era un simbolo identificativo dei napoletani perché il suo stile anarchico, ribelle, ma allo stesso tempo geniale si sposava con la rappresentazione dominate della napoletanità». Quella a cui abbiamo appena assistito non è invece la vittoria di un singolo, ma quella di un progetto imprenditoriale serio all’interno del quale operano grandi professionalità in tutti i comparti, da quello amministrativo a quello sportivo. «Una cosa che valeva anche per il Napoli di Maradona, ma non entrò nella rappresentazione di quelle vittorie». I due scudetti del presidente Corrado Ferlaino erano però ancora figli di un’imprenditorialità spericolata votata all’indebitamento, che alla lunga portò la Serie A dall’essere il campionato più competitivo d’Europa a quello caratterizzato dall’endemica crisi economica che le nostre grandi squadre vivono ancora oggi. Al contrario il trionfo azzurro targato – in primissima battuta – Aurelio De Laurentiis, rappresenta «un unicum del calcio Europeo d’elite in cui spesso le vittorie si accompagnano all’accumulo di debiti enormi», commenta Francesco Pirone docente di sociologia dei processi economici all’Università di Napoli. La gestione De Laurentiis inizia nell’estate 2004, dopo il fallimento del Napoli calcio. Il patron di Filmauro riprende un Napoli sprofondato in Serie C e in pochi anni lo riporta prima in serie A e poi in Champions League e a contendere lo scudetto alla Juventus. Un obiettivo che era diventato quasi una chimera dopo che nella stagione 2017-2018 lo spettacolare Napoli di Maurizio Sarri era arrivato secondo, dietro ai bianconeri, pur collezionando 91 punti. Ma ciò che ha caratterizzato sempre il Napoli di De Laurentiis è stata una cultura imprenditoriale votata alla sostenibilità economica. Quella stessa cultura che ha portato a volte a decisioni impopolari. Non da ultimo l’estate scorsa: quando i tifosi partenopei avevano visto l’addio simultaneo di alcuni pilastri come Kalidou Koulibaly, Fabian Ruiz e il capitano Lorenzo Insigne, mai avrebbero pensato di concludere la stagione agguantando il tricolore con ben cinque giornate d’anticipo.

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Una logica che rende la gestione De Laurentiis unica anche rispetto alla storia dello stesso Napoli. Il primo presidente a cercare di portare gli Azzurri nel calcio d’elite fu Achille Lauro, patron dal 1936 fino agli anni Sessanta, col motto “Un grande Napoli per una grande Napoli”. A differenza di De Laurentiis, Lauro usava il Napoli come strumento per cementare il suo potere politico sulla città, di cui fu sindaco dal 1952 al 1957. Al contrario l’attuale presidente «è sempre stato solo un attore economico con interessi riconducibili al suo gruppo e non ha mai ceduto alla tentazione di utilizzare la popolarità del club sul piano politico», commenta Pirone. Anzi, aggiunge Bifulco, «De Laurentiis non solo non è impegnato nella politica cittadina, ma non sembra nemmeno interessato a farsi amare populisticamente dai napoletani. In un certo senso ha portato il Napoli fuori da Napoli, anche fisicamente visto che la squadra si allena a Castel Volturno».

Proprio l’internazionalizzazione del Napoli calcio è la chiave di lettura dell’era De Laurentiis e del trionfo a cui abbiamo appena assistito. Se non è né tra i compiti né tra le facoltà del calcio di innescare un profondo rinnovamento socioeconomico sul territorio, il terzo scudetto e la presenza di una squadra di consolidato calibro internazionale può dare linfa a tutto un indotto fatto di servizi pubblicitari e logistica. Ma soprattutto può essere un tassello di quella sempre maggiore opera di esposizione mediatica della città e un input per una realtà che non è narrata come vincente sul piano del business a dimostrare di avere mezzi per avere successo non solo nello sport. Basta guadare alla stessa formazione del Napoli. Se i primi due scudetti furono quelli di Maradona, “scugnizzo” adottivo, il terzo è del presidente De Laurentiis e di un abile Direttore Sportivo come Cristiano Giuntoli capace di costruire, senza spese folli, una formazione che mette insieme il nazionale italiana Di Lorenzo, il georgiano Kvaratskhelia, il sud Coreano Kim e il nigeriano Osimhen. È una squadra in cui «si parla inglese e in cui non conta imparare il napoletano, ma arrivare a vincere» conclude Bifulco. Lo scudetto appena vinto «contrasta diversi luoghi comuni su Napoli, tra cui quello stesso per cui qui a Napoli si vive solo per il calcio: la prima cosa a cui si pensa è il lavoro, la seconda è… la formazione del Napoli».