Esclusiva

Febbraio 28 2024.
 
Ultimo aggiornamento: Marzo 11 2024
20 giorni a Mariupol

Un gruppo di giornalisti dell’Associated Press decidono di rimanere in Ucraina e raccontare i primi 20 giorni dell’attacco russo

Il regista e giornalista Mstyslav Chernov ha presentato un lungometraggio su una città devastata dalle milizie russe, bersaglio di un conflitto, ancora in corso. “20 giorni a Mariupol” ha ottenuto il premio come miglior documentario agli Oscar 2024 e già vincitore di numerosi premi come i Critics Choice Documentary Awards 2023, per miglior opera prima documentaria, il premio del Pubblico World Cinema Documentary al Sundance Film Festival 2023, e miglior regista internazionale al DocEdge Film Festival 2023.

È il 24 febbraio 2022, una squadra di giornalisti ucraini dell’Associated Press rimane intrappolata nella città di Mariupol. Le strade sono innevate, si sente un rumore nuovo: è quello delle bombe. Il cielo è annebbiato dalla cenere dei palazzi colpiti, le persone urlano cercando un posto protetto, perché anche la propria casa non è più un luogo sicuro. La guerra è appena iniziata.

Il gruppo di reporter decide di rimanere e documentare con foto, video e ogni mezzo a loro disposizione, ciò che l’invasione russa sta facendo. Catturano immagini della guerra diventate simbolo del dolore e della resistenza ucraina: fosse comuni, bombardamenti in un ospedale, bambini in fin di vita.

«Siamo arrivati a Mariupol alle 3.30. La guerra è iniziata un’ora dopo – racconta il regista – i russi hanno tagliato l’elettricità, l’acqua, le scorte di cibo e infine, soprattutto, i ripetitori dei telefoni, della radio e della televisione». Questo blocco totale verso l’esterno aveva due obiettivi: «Il caos è il primo. Le persone non sanno cosa sta succedendo e vanno nel panico. L’impunità è il secondo. Senza informazioni provenienti da una città, senza immagini di edifici demoliti e bambini morenti, le forze russe potevano fare quello che volevano. Se non fosse per noi, non ci sarebbe nulla».

La squadra di giornalisti segue come un’ombra i soldati ucraini, riprendono dal settimo piano di un ospedale in città i primi carri armati con la “Z” (appartenenti ai russi) arrivati in territorio ucraino. Mirano a tutti e a ogni cosa che incontrano. Le persone urlano, scappano dalle proprie case e si nascondono nei sotterranei degli edifici. Il piano -1 di una palestra diventa un rifugio, il pavimento è tappezzato da materassi di fortuna. Alcuni di loro coprono con il nastro adesivo le pareti specchiate, per evitare che nel caso di attacco i frammenti possano ferire qualcuno.

Dopo il primo, secondo, terzo bambino morto in strada, le ambulanze hanno smesso di raccogliere i feriti, non ci si può spostare nelle vie durante i bombardamenti.

«C’era ancora un posto in città in cui ottenere un collegamento stabile – spiega Mstyslav – fuori da un negozio di alimentari saccheggiato in Budivel’nykiv Avenue». Una volta al giorno la troupe andava lì e si accovacciava sotto le scale. Non si sentivano sicuri, ma era l’unico modo per avere un contatto con l’esterno. Il segnale però è scomparso il 3 marzo. 

Il racconto prosegue, alcune immagini riprendono l’attacco ad un ospedale per la maternità: «Quando siamo arrivati, gli operatori dei soccorsi stavano ancora tirando fuori dalle rovine le donne incinte insanguinate», spiega il giornalista, le stesse madri che, senza prove, l’ambasciata russa a Londra aveva accusato di essere attrici. «Eravamo gli ultimi giornalisti a Mariupol. Adesso non ce ne sono», conclude. Ciò che rimane è un documentario che non si risparmia. È una testimonianza preziosa di una guerra che ancora adesso fatica nel trovare una mediazione, di ospedali, case, teatri, asili nido rasi al suolo dalla potenza di un conflitto crudele. Un’ora e mezza di cittadini che corrono e scappano da colpi di artiglieria russa. 20 giorni a Mariupol mostra ciò che non si deve dimenticare, una guerra che esiste ancora.  

20 giorni a Mariupol