Undici autori. È questo il numero che governa il Festival di Sanremo 2025, dove il 66.6% dei brani in gara porta le stesse firme. Un dato che ha spinto il Codacons a presentare un esposto all’Antitrust, ma che soprattutto fotografa un sistema musicale italiano sempre più chiuso in se stesso.
La concentrazione creativa emerge dai numeri: Federica Abbate firma sette brani, Davide Simonetta cinque, mentre Jacopo Ettorre, Davide Petrella e Jacopo Lazzarin ne scrivono quattro ciascuno. Paolo Antonacci e Blanco seguono con tre composizioni.
Un fenomeno che il giornalista e critico musicale Michele Monina osserva da anni, analizzandone le cause e le conseguenze sull’industria discografica. Le major, invece di essere motori di diversità, investono su pochi autori considerati ‘garanzia di successo’. Questa concentrazione non è casuale: gran parte di essi fa capo a due grandi editori, che di fatto controllano la maggior parte della produzione musicale del Festival.
Come emerge dai dati del settore, Universal, leader di mercato, può vantare un controllo significativo sulle canzoni in gara attraverso il suo ramo editoriale, anche quando gli artisti appartengono ad altre case discografiche. “È quella che io chiamo la tavola di Mendeleev del Festival”, spiega Monina. Uno schema che mette in relazione artisti, produttori e case discografiche, da cui emerge chiaramente come quasi tutti facciano capo allo stesso editore.
“Davanti a scenari di questo tipo, per un giovane autore, le strade si contano sulle dita di una mano”, osserva il giornalista. “Alessandro La Cava, compositore, rappresenta l’eccezione che conferma la regola: ce l’ha fatta, ma passando per la Universal Publishing.”
La direzione artistica, interpellata sulla questione, prende le distanze. “Quando il direttore Carlo Conti afferma di non essere stato consapevole della concentrazione di autori fino a selezione avvenuta”, riflette Monina, “emergono interrogativi sulla reale autonomia delle scelte artistiche. Come verificare, ad esempio, se davvero ‘non sono state inviate canzoni più impegnate’, come sostenuto da Conti?”
Il paradosso è ancora più evidente se si guarda alla storia del Festival. “Negli anni Cinquanta e Sessanta, Sanremo era davvero il festival della canzone italiana”, racconta il critico. “Autori come Pallavicini creavano sapendo che le loro composizioni sarebbero state al centro dell’attenzione. Oggi il Festival è diventato una vetrina di interpreti”.
Il problema va ben oltre il palco di Sanremo: lo streaming detta legge. Gli algoritmi preferiscono il già sentito, le playlist premiano chi non si discosta dal solco tracciato. Un meccanismo che ha trasformato Sanremo nel centro gravitazionale dell’industria discografica italiana. Monina ricorda come nel 1975 Baglioni poteva permettersi di rifiutare l’invito di Pippo Baudo, forte dei suoi quattro milioni di copie vendute; ad oggi sarebbe impensabile.
“Le uscite di album e singoli sono tarate sui tempi dell’Ariston”, evidenzia il giornalista, “mentre altri palchi storici – dal Primo Maggio al Festivalbar, dal Club Tenco ai Tim Awards – hanno perso la loro funzione di scoperta e promozione di nuovi talenti.
Così, gli autori che dominano il Festival sono gli stessi che firmano i tormentoni estivi”. Come lui stesso spiega, è normale rivolgersi a un autore di successo, non è normale che ci sia sempre quell’incrocio tra gli stessi nomi.
In questo scenario, emergono rare eccezioni. Autori come Brunori Sas e Modà gareggeranno con pezzi scritti e composti da loro. Ma sono casi isolati in un sistema che privilegia la ripetizione di formule collaudate.
L’esposto del Codacons all’Antitrust solleva un problema reale, ma la questione va oltre l’aspetto legale. Sanremo 2025 diventa così lo specchio di un’industria musicale che ha bisogno di ritrovare il coraggio di osare. La diversità non è solo una questione di numeri, ma la linfa vitale di un’arte che si nutre di confronto e sperimentazione.