«Le belle ragazze dovrebbero sempre sorridere» afferma Harvey in The Substance mentre sorride beffardo. Coralie Fargeat, scrittrice e regista del film, lo sa bene che questa è una frase vecchia come il mondo. Eppure, rimane sempre attuale. Da questo apparente cortese invito si dispiega una viaggio a metà tra l’orrore e il disgusto che porta nel profondo dei paradossi hollywoodiani e dell’industria dell’intrattenimento che, per proprietà transitiva, diventa della società tutta.
La storia ruota attorno alla bellissima attrice di Hollywood Elisabeth Sparkle, interpretata da una magistrale Demi Moore. Ormai cinquantenne, rosa appassita, come quelle lasciate a marcire sul suo tavolo, accompagnate dal messaggio «sei stata fantastica», soffre per il non essere più appetibile all’industria dell’intrattenimento perché troppo anziana. Lo spettacolo cerca qualcosa di nuovo, qualcosa di fresco, qualcuno che possa sostituirla: «Chi sarà la nuova Elisabeth Sparkle?». Furiosa e desiderosa di riprendersi il suo meritato successo, decide che nessuno può sostituirla meglio di sé stessa.
Questo accade grazie a una misteriosa sostanza, che permette a chi se la somministra di tirare fuori da sé stessi (letteralmente) la propria «parte migliore»: più bella, più giovane, più perfetta. Così Elisabeth crea un suo clone più giovane. Le dà un nome, Sue, interpretata da Margaret Qualley, che impiega poco tempo, grazie alla sua decennale esperienza nel settore, a recuperare il successo che stava sfuggendo dalle mani di Elisabeth – fino a rubarle il posto, le attenzioni e il ricordo. Tra una Sue sempre più di successo e libera e un’Elizabeth sempre più indispettita e invidiosa, nasce una spirale di lotta e degrado personale che si insinua sempre più in profondità nella spina dorsale che le due showgirl condividono. Da una cosa non si scappa però: «Tu sei una, non puoi fuggire da te stessa».

Tra un intreccio di eredità provenienti da diversi maestri dell’industria del cinema, da Lynch a Cronenberg, con molteplici richiami alle immagini più inquietanti di Kubrick, Fargeat ha creato un piccolo universo che si inserisce con facilità nella cronologia storica del body horror, condito di satira sociale. Con le sue immagini al di là del disgustoso, la scenografia angosciante e le musiche allarmanti, si genera un viaggio che attraversa la palude delle insicurezze di ognuno di fronte a degli standard estetici che nessuno è in grado di rispettare, neppure i loro stessi modelli.
La scenografia porta sul grande schermo 140 minuti in cui lo spettatore viene messo a disagio da primi piani su dettagli che fanno ribrezzo e da stanze troppo grandi e troppo vuote, come gli sconfinati antri di una mente collettiva disorientata. L’esempio lampante ne è la sedia solitaria al tavolo di Elisabeth, che mostra come sorrisi e ammirazione di migliaia di fan verso un personaggio pubblico lasciano l’essere umano che c’è dietro da solo con le sue paure, causate da un sistema vorace e che chiede troppo.
Un viaggio incespicante diretto da musiche che incalzano e mettono ansia. Da sound bites, che fanno riecheggiare di inquietante grandezza anche il più piccolo oggetto o sguardo inquadrato, a insistenti ritmi techno-industrial, che trascinano le emozioni in un tempo troppo veloce per stargli dietro e che batte troppo forte per ribellarsi.
È di fronte a quello specchio che mette in luce le proprie inadeguatezze che The Substance si rende più attuale. Lo fa rendendo quel modello di business e di immagine, fatto di sorrisi finti, marci e lerci di cocktail di gamberi, una bolla che scoppia dall’interno.
Quello di The Substance, prodotto da Working Title Films e distribuito in Italia da I Wonder Pictures, è un protagonismo al femminile, in cui i corpi diventano oggetto e le persone investimenti. Tutto ciò di fronte a un mondo maschile che rimane inetto ed incapace di fronte alla sua più becera bassezza. Un mondo in cui un sorriso, in apparenza timido e incerto, diventa una maschera dietro la quale nascondere il proprio disagio e la propria impotenza verso una volontà che viene dall’altro e che decide del tuo stesso corpo. Se c’è un messaggio che il film comunica in maniera indelebile è che tutti noi, dalle grandi star alla gente comune, siamo gli ultimi ad essere padroni del nostro corpo.
Suddetto messaggio rimane sottile per gran parte del film ma da metà in poi, con un contemporaneo calo della sorpresa drammatica, intraprende un climax sempre più estremo. Così il film si chiude con una messa in scena di un grottesco spettacolo, simbolico ma a tratti quasi insensato, fatto di ettolitri di sangue. Il palcoscenico rimane quello di un’industria che, tra riflettori e brillantezza e una stella di Hollywood macchiata di sangue e ketchup, rimane sporca della colpa di non lavorare con delle persone, ma con oggetti di carne da scolpire, sfruttare e poi buttare.