Not all men, ma ogni dieci minuti un uomo uccide una donna. Sono questi i dati mondiali riportati dall’United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC). In Italia, il Ministero degli interni ha registrato 111 femminicidi nel 2024, 96 dei quali in ambito familiare e 59 commessi da partner o ex partner delle vittime. In vista dell’8 marzo, giornata internazionale dei diritti delle donne, alla Camera si è affrontato il tema della discriminazione di genere: «Un fenomeno specifico e inquietante, – afferma la deputata della Lega Laura Ravetto- a cui si va a aggiungere nel nostro Paese un nuovo reato: il fenomeno della cosiddetta Tarrush Gamea, cioè la violenza di gruppo operata da ambienti di immigrazione secondaria di matrice islamica». Usare la lingua araba per indicare un fenomeno che la cultura italiana conosce bene lo relega a un mondo lontano, “estraneo” e crea un immaginario in cui la persistenza della violenza di genere non appartiene all’Italia.
Ma abusi sessuali e femminicidi sono solo le forme più evidenti dei soprusi. La cultura patriarcale si manifesta in vari aspetti della quotidianità, primo fra tutti la maternità. La legge 194 del 22 maggio 1978 ha garantito per quasi cinquant’anni la possibilità di abortire entro le 12 settimane di gestazione, garantendo alle donne la libertà di decidere sul proprio corpo e sulla propria vita. Nonostante ciò, i recenti provvedimenti governativi hanno permesso l’accesso di gruppi antiabortisti nei consultori. L’obiettivo delle attività delle associazioni pro-vita è offrire supporto durante e dopo la gravidanza. Ma la loro presenza riesce anche a condizionare e limitare il libero agire delle pazienti, mettendo in discussione ciò che la norma tutelava.
L’ambito medico non è l’unico in cui il ridimensionamento dell’autodeterminazione delle donne è evidente. In Italia il tasso di occupazione femminile è in crescita. Il governo Meloni ha registrato un significativo aumento, con oltre 10 milioni di lavoratrici e un tasso di occupazione superiore al 53%, un risultato riconosciuto come positivo. Il dato cela però il processo di precarizzazione del mondo del lavoro. A marzo 2024, su un totale di circa 18,8 milioni di lavoratori dipendenti, oltre 2,8 milioni avevano un contratto a tempo determinato. Questo tipo di assunzioni determina un impoverimento della popolazione e dei singoli nuclei familiari rendendo i coniugi co-dipendenti dal punto di vista economico. Questa condizione rende sempre più difficile per le donne vittime di violenza liberarsi da episodi di abuso.
Inoltre, analizzando le singole retribuzioni, è evidente lo scarto retributivo tra lavoratori e lavoratrici. In Italia, il gap salariale è una delle forme che assume la discriminazione di genere. Le donne guadagnano in media circa venti punti percentuali in meno rispetto agli uomini. Nelle attività manifatturiere la differenza salariale arriva al 20%, nel commercio al 23,7%, nei servizi di alloggio e ristorazione al 16,3% e nelle imprese finanziarie, assicurative e nei servizi alle imprese al 32,1%. Anche nei ruoli di leadership, la parità di genere è lontana e con una percentuale del 21,1% e del 32,4% tra i quadri direttivi.
I dati citati non sono solo di numeri, ma storie di donne e ragazze, di diritti negati e di lotta per la parità. L’appiattimento delle disuguaglianze salariali e la rivendicazione della libertà sono sfide strutturali che richiedono un cambiamento radicale per risolvere una discriminazione di genere che ha radici profonde e lontane non nello spazio ma nel tempo.