Non tutti sanno che Buenos Aires non è bagnata in modo diretto dall’Oceano. Si affaccia su una baia dell’Atlantico denominata Rio de la Plata (“fiume d’argento”). A dispetto del nome non è un fiume in senso stretto, ma il più grande estuario del mondo. Negli anni bui del Processo di Riorganizzazione Nazionale (1976-1983) le sue acque torbide furono usate per far sparire migliaia di dissidenti politici, in alternativa alle fosse comuni. I soggetti indesiderati erano caricati su aerei o elicotteri, drogati e gettati giù nella baia. L’obiettivo era farli svanire nel nulla, senza lasciar traccia. Da qui il nome, desaparecidos, scomparsi.

I cosiddetti “voli della morte” partivano da diversi aeroporti militari di Buenos Aires: uno di questi proprio sulle rive del Rio. A poche centinaia di metri dalla pista si erge oggi un monumento in ricordo di tutte le vittime del terrorismo di Stato. «Il Parque de la Memoria è un luogo austero. Anche l’impatto cromatico è forte. In mezzo al prato ti trovi davanti a questi muri di granito scuro che si stagliano alti contro il cielo azzurro. Poco oltre si vede l’acqua marrone del Rio de La Plata». A parlare è Sofia Borri: quello di sua madre, Silvia Susana Roncoroni, è uno degli oltre trentamila nomi incisi sulle pareti.
Nel 1978 Silvia ha trentacinque anni. È una madre e una sorella. Per i nipoti Cristian e Belén, la zia progressista cui affidare i propri sogni da adolescenti. Alla sua brillante carriera da architetta affianca la militanza nel partito comunista marxista leninista. Una doppia vita difficile da ricostruire, anche per amici e familiari. Il giorno del sequestro, il 26 febbraio, Silvia si trova in una “casa sicura” a Mar del Plata, insieme alla figlia di due anni e ad altre tre compagne di partito. Di quella notte Sofia conserva solo sprazzi confusi di memoria: buio, luci accecanti, grida.
C’è un’altra bambina con lei: è Victoria, la figlia di Dora Cristina. Le due nenas -così le chiamano- sono legate sin da subito da un destino comune. A entrambe, per ragioni di sicurezza, è assegnato un “nome da guerra”, Nani e Toti. Nei vestiti di entrambe è nascosto l’indirizzo delle nonne, cucito sulla biancheria. Dopo il sequestro le bimbe passeranno una settimana in un luogo imprecisato, forse un orfanotrofio, prima di essere riconsegnate alle famiglie. Sofia andrà a vivere per alcuni mesi a casa dei nonni. Poi inizierà una nuova vita in Europa con il padre: prima in Svezia, poi in Italia.
Per tutta l’infanzia e l’adolescenza il ricordo della madre rivive solo nei racconti del papà e in Sofia cresce forte il bisogno di ricongiungersi con il proprio passato. A 17 anni parte alla volta dell’Argentina. Due anni dopo, nel 1995, un secondo viaggio. «A quell’età hai voglia di vedere, di scoprire. Io avevo una fame incredibile di relazioni. Volevo capire, confrontarmi con gli altri». A Buenos Aires è tempo di fermento e di lotta. Sofia conosce da vicino il mondo della militanza politica. Entra in contatto con las Madres de Plaza de Mayo, il movimento delle madri che reclamava giustizia per i desaparecidos. Negli stessi anni nasce H.I.J.O.S., l’organizzazione dei figli. Tra i fondatori c’è anche sua cugina Josefina: il padre Carlos è un’altra vittima della dittatura di Videla.
«Mi sono sentita parte di una comunità. Avevamo tutti la stessa esigenza di riprenderci la nostra identità rubata», racconta Sofia. «Nell’attivismo ho instaurato dei rapporti di fratellanza e sorellanza di cui mi sono presa molta cura negli anni a venire. Volevo mantenere vivo questo pezzettino di me al di là dell’oceano».
Con H.I.J.O.S nascono gli escraches, le rumorose “segnalazioni pubbliche” davanti alle case dei torturatori rimasti impuniti. «Ho partecipato a molte di quelle manifestazioni. Sono momenti di grande potenza, in cui ti senti protagonista. Stai lì con tanta altra gente a urlare e lottare, eppure al contempo ti sembra di essere lì da solo. Sei il piccolo ingranaggio di una collettività unita di fronte alle ingiustizie».
Negli anni Sofia è andata e tornata dall’Argentina. Ha costruito legami sempre più forti con i cugini, ha letto e riletto il quaderno di nonna Rosita, ha incontrato le amiche e i compagni di militanza di sua madre. Ha messo insieme foto e racconti, come pezzettini di un puzzle. «Chi era più grande quando ha perso i genitori ha dei ricordi a cui aggrapparsi. Io, invece, mia madre me la sono solo potuto immaginare», racconta.
«Nella mia testa, Silvia era una donna indipendente e anticonformista. Era appassionata: le piaceva il lavoro da architetta. E poi era una una persona solare, capace di mettere gli altri a proprio agio». Tutte caratteristiche che Sofia rivede in se stessa. «Mi piace pensare di aver ereditato da lei questi tratti. Ho la sensazione che saremmo andate molto d’accordo».
Sofia non ha molte fotografie della madre. È un problema comune tra i figli dei desaparecidos. «Per i militanti farsi immortalare con i familiari poteva essere pericoloso», spiega. Sono due le immagini a cui Sofia tiene in modo particolare. In una Silvia ha 21 anni e si trova insieme a un gruppo di amici dell’università. «Dietro di lei c’è anche suo cugino Carlos che suona la chitarra. Sembra una giovane piena di energia». L’altra è la sua foto preferita in assoluto. «Qui è seduta in un parco e ha le gambe chilometriche ben in vista. Gli amici dicevano che era una donna molto attraente, che riempiva le stanze con la sua presenza. Una gnoccona, diremmo oggi».

Poi c’è un’immagine che Sofia non ama molto. È l’unico scatto che le ritrae insieme, dove la madre è girata di profilo e «ha l’aria triste e preoccupata». «Di solito non la mostro», confessa. «Eppure è la sua sola foto a colori, dove si può vedere che era bionda, mentre io non lo sono», sorride. «Anche le mie figlie hanno i capelli chiari. Mi rende felice il pensiero che li abbiano presi da lei».
Oggi Amanda e Adele non sono più due bambine. «Sono due milanesi che parlano itagnolo e che un giorno potranno approfondire le loro radici argentine, se vorranno. In loro ho piantato dei piccoli semi ma starà a loro decidere cosa farne». Il passaggio di consegne generazionale è l’ingrediente principale della memoria. Prima c’erano las abuelas e las madres, poi gli H.I.J.O.S. Oggi tocca ai nipoti continuare la lotta. «Si definiscono nietes, con il plurale inclusivo».
A febbraio, dopo quasi cinquant’anni dalla scomparsa della madre, Sofia è stata chiamata a testimoniare. Con lei, anche Victoria e gli altri parenti delle militanti sequestrate quella notte.«Appena atterrata sono andata subito al Parque de la Memoria. Fissando il nome di Silvia, mi è montata la rabbia e mi è venuto da piangere. Poi ho pensato alle persone che mi circondavano, a quello che il mausoleo rappresentava per tutti loro e mi sono sentita abbracciata, in un profondo senso di comunità». Su quei muri non c’è solo sua madre, ma il cugino Carlos, la madre di Victoria e i protagonisti di altre trentamila storie, una diversa dall’altra. «Di recente, persino chi non aveva mai conosciuto Silvia mi ha scritto:“Quando tornerò al parco, andrò a salutare anche lei”».
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