Non si tratta solo di un glossario, né di una sistemazione enciclopedica. Parole della politica di Gianfranco Pasquino, edito da il Mulino, è piuttosto un esercizio di chiarificazione e di critica: un tentativo «necessario, meritorio, civile», come spiega l’autore fin dalle prime righe, di restituire senso e rigore a termini troppo spesso maneggiati con «disinvoltura pari all’approssimazione» da politici, giornalisti, giuristi e commentatori improvvisati.
Non è la prima volta che il politologo bolognese – professore emerito e socio dell’Accademia dei Lincei – si cimenta in un’opera simile. C’è un precedente: La transizione a parole, uscito nei primi anni duemila. Ma se lì lo sguardo era rivolto all’Italia del post-Tangentopoli, qui Pasquino si confronta con uno scenario diverso, dove «la transizione cominciata nel biennio 1992-1994 è sostanzialmente terminata», senza però che si sia affermata una vera stabilità politica e istituzionale. I partiti continuano a mutare, spesso in forme caotiche; le riforme si inseguono, le crisi si sovrappongono. È in questo contesto che le parole diventano al tempo stesso strumenti e trappole.
Il nuovo saggio, un’edizione radicalmente aggiornata, mantiene la struttura simile a un dizionario: 15 le voci scritte ex novo, le atre sono riviste e arricchite. Dalla A di Antipolitica alla U di Ulivo, ciascuna affrontata con piglio scientifico ma anche con chiara passione civile. Pasquino non si nasconde: nelle sue definizioni ci sono umori e malumori, giudizi espliciti, opinioni motivate. Il tentativo dichiarato non è la neutralità, bensì quell’«imparzialità» che Max Weber attribuiva allo scienziato sociale, capace di riconoscere le proprie posizioni senza sacrificare la coerenza dell’analisi.
Alcune voci spiccano per densità e attualità. L’antipolitica, per esempio, è descritta come «un tratto permanente della scarsa cultura politica degli italiani», con manifestazioni carsiche che emergono ciclicamente. Il termine Campo largo, attribuito alla segreteria dem di Enrico Letta, invece è un esempio di come le parole si carichino di aspettative strategiche, salvo poi rivelarsi macigni da spingere in salita. Un’espressione che tradisce la scarsa chiarezza sulle strategie, sulle leadership e sui confini programmatici del Partito Democratico e dei suoi dirigenti, dopo ogni tornata elettorale «sempre obbligati a riprendere la salita, affannati e stanchi dal punto di partenza del negoziato con i potenziali alleati». E ancora, la definizione di cordone sanitario, richiamo alle scelte europee di isolamento dei partiti antisistema, come l’AfD in Germania, e ai pericoli di normalizzare chi minaccia la democrazia dall’interno.
Non mancano gli affondi sulle trasformazioni istituzionali. Il «Premierato alla Meloni» è descritto come una riforma ambigua che non garantisce né competenze né trasparenza, e che potrebbe anzi rafforzare il potere esecutivo a scapito del Parlamento e del ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica. Allo stesso tempo, la voce crisi delle democrazie rifiuta la narrazione catastrofista: nessuna democrazia è crollata dopo Lehman Brothers, dopo la pandemia o di fronte alla guerra in Ucraina. Semmai, dice Pasquino, hanno mostrato una certa resilienza, anche se affaticata e diseguale.
Spazio anche al concetto di egemonia culturale, che per l’autore non si riduce a un problema di posti di potere, ma riguarda «idee ed elaborazione culturale». Non l’occupazione di poltrone o di spazi mediatici, ma la capacità di produrre visioni del mondo, valori, interpretazioni condivise.
Le parole contano, ci dice Pasquino. E lo fa non solo da politologo, ma da testimone diretto di cinquant’anni di vita repubblicana: caporedattore, nel 1969, del Dizionario di politica diretto da Norberto Bobbio; autore di Modernizzazione e sviluppo politico (1970); studioso attento tanto ai sistemi comparati quanto al funzionamento concreto della democrazia italiana. Le parole non sono semplici etichette: sono strumenti per comprendere, ma anche per decidere, per schierarsi, per difendersi. Nel tempo della semplificazione sistematica e della velocità comunicativa, Parole della politica si propone come un breviario critico e civile. Un lessico per orientarsi, ma anche per smascherare retoriche vuote e narrazioni che deformano la realtà. Perché, come insegna l’autore, il linguaggio non è il vestito della politica, ne è ormai la sostanza.
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