Ci sono luoghi che restano sospesi, senza una nuova direzione. Non crollano, ma non vivono. E restano lì, per rappresentare cosa sono stati e ciò che potrebbero diventare. È il caso dell’ex MOI nel quartiere Filadelfia di Torino: 90mila metri quadri di ambizioni olimpiche, emergenze sociali e progetti mai realizzati. «Il complesso nasce negli anni ’30 come mercato ortofrutticolo all’ingrosso» racconta Massimiliano Miano, presidente della Circoscrizione 8. Per oltre settant’anni, l’area ha rappresentato un polo nevralgico per il commercio torinese, fino a quando non è stato dismesso nei primi anni 2000.
È con le Olimpiadi invernali del 2006, però, che si presenta l’occasione per trasformare l’area. La zona, infatti, viene scelta per ospitare temporaneamente gli atleti e gli eventi legati alla più importante manifestazione sportiva al mondo. «Le arcate venivano utilizzate per incontri legati al periodo olimpico mentre nel villaggio soggiornavano gli atleti, i delegati e i giornalisti» spiega Miano.
Passati i 30 giorni dei Giochi, però, l’area si spegne. Le strutture iniziano lentamente a svuotarsi: «Anno dopo anno sono andate sempre più in decadenza» conferma Miano.

A partire dal 2013, infatti, l’ex villaggio olimpico si trasforma: «Le palazzine sono state occupate abusivamente da 1.200 profughi, tra cui anche richiedenti asilo politici. Non sembrava neanche Torino. Ricordo i consigli comunali aperti, i comitati, le manifestazioni dei cittadini che volevano delle risposte» ricorda Miano.
Per anni, la zona dell’ex MOI è oggetto di dibattito cittadino, cronaca e tensione. Gli episodi di microcriminalità e la difficoltà di convivenza tra residenti storici e nuovi arrivati portano il comune a elaborare un piano di uscita graduale: niente sgomberi forzati per gli occupanti, ma un percorso di accompagnamento sociale verso strutture alternative. Da cinque anni le palazzine sono state liberate e gli appartamenti ospitano residenze universitarie, studentati e soluzioni di social housing, a prezzi calmierati. Un cambiamento visibile che ha restituito dignità e funzione a un quartiere dimenticato.
Le ampie strutture in cemento delle arcate, invece, ancora segnate con lo slogan olimpionico scolorito “Passion lives here, Torino 2006” rimangono mute, in attesa di una riqualificazione da 18 anni. «Il punto dolente che rimane è quello delle arcate. Negli anni viene fatta costantemente una manutenzione per la struttura ma non sono mai state riconvertite in un’altra realtà» racconta il presidente.
Un silenzio pesante per le strutture architettoniche, che diventano simbolo del rapporto irrisolto tra grandi eventi e città, tra investimenti straordinari e quotidianità urbana. Dopo le Olimpiadi, il quartiere Filadelfia ha attraversato una fase di progressivo “addormentamento”, come lo definisce lo stesso Miano.

Il problema è anche legale e culturale: le arcate sono legate alla Soprintendenza come bene di valore storico e architettonico. «Tutti gli spazi che hanno avuto un trascorso di pubblica utilità sono vincolati», spiega Miano. Al momento una parte è di proprietà del Comune di Torino mentre l’altra della fondazione 20 Marzo 2006, l’ente che gestisce gli impianti olimpici.
Negli anni vengono ipotizzati diversi progetti, ma nessuno si è mai concretizzato. «In passato era stato fatto un tentativo per trasformarlo in un centro di biotecnologie, con la giunta dell’ex sindaco Fassino». L’università di Torino aveva inizialmente aderito al progetto ma poi si è ritirata per mancanza di fondi.
«Oggi siamo tornati a dialogare con il Politecnico, da cui abbiamo già ottenuto la volontà di partecipare, e l’università torinese. Vogliamo realizzare questo progetto perché nell’area limitrofa del Lingotto nascerà il parco della salute, ricerca e innovazione, con il nuovo distretto ospedaliero e universitario» spiega Miano.
Per il presidente è importante ripensare e creare una nuova realtà per le Arcate: «Mancano solo loro per poter dire di aver riqualificato tutto il quartiere».