Esclusiva

Giugno 23 2025
Da un diluvio può nascere il delirio

Manuele Baiocchini racconta lo scudetto della Lazio del 2000 e commenta su quanto sia cambiato il calcio da quegli anni

«Lo scudetto del duemila è irripetibile, per il finale che ha avuto, una storia da film, una favola avvenuta realmente»: così il giornalista Manuele Baiocchini che l’ha vissuta in prima persona e la racconta nel libro Diluvio e delirio. Lo scudetto più incredibile di sempre (Cairo, 2025), narrandone con il giornalista Valerio Spina gli attimi, le paure, le titubanze, la gioia improvvisa e il coronamento in un finale ad affetto che solo i film candidati all’Oscar riescono a donare.

Il 14 maggio del 2000, il diluvio a Perugia, la Lazio a un punto dalla prima squadra in classifica, all’ultima giornata conquista lo scudetto: erano gli anni in cui Sir Alex Ferguson, allenatore del Manchester United, disse «che il suo dispiacere fu quello di non aver battuto la Lazio a Monaco» nella finale di Supercoppa UEFA e il presidente Sergio Cragnotti aveva il progetto di renderla una squadra internazionale e allontanarla dal luogo comune di essere una squadra provinciale.

La Lazio determina un senso di appartenenza che si tramanda di padre in figlio, ma, per Manuele «da quegli anni il calcio è cambiato, come il mondo stesso, poco di tutto questo è rimasto: a livello di regolamenti, basti pensare all’introduzione del Var e delle cinque sostituzioni, ma credo che il lato umano è quello che realmente è cambiato, prima c’era un rapporto diretto con i tifosi e i giornalisti, si vinceva insieme, si esultava quando si vinceva o capitavano insulti da parte dei giocatori quando i nostri commenti non erano ritenuti adeguati quando si perdeva, quasi come succede nelle famiglie, oggi è tutto proiettato sui social. Prima era tutto più improvvisato ora è tutto più programmato, ma è rimasto il fascino di questo sport».

Da un diluvio può nascere il delirio

Negli ultimi anni tanti colossi stranieri sono sbarcati nel calcio italiano e hanno rivoluzionato il modo di gestire i club: «Oggi ci sono i dati, le schede… Con l’algoritmo si prevede se un giocatore si infortunerà! Nel mercato, i mezzi tecnologici di ultima generazione sono di grande supporto perché ti forniscono i dati specifici del giocatore e i numeri della sua stagione, ma deve esserci il direttore sportivo che conosce il carattere del singolo giocatore e sa se può essere inserito in quel determinato contesto”. Il rischio, con l’utilizzo di algoritmi, è di meccanizzare il tutto, «ma sai è come quanto sta accadendo con l’IA, può essere un enorme beneficio, l’importante è utilizzarla con il controllo umano».

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Un altro «dato visibile a tutti è che c’è un 60 percento di giocatori extra comunitari nella nostra Serie A, gli investimenti nelle Academy vengono fatti da molti club, ma credo che ci debbano essere dei regolamenti che obblighino le società calcistiche a far giocare un certo minutaggio i giovani italiani dei loro vivai, perché se un giocatore non gioca in Italia, come fa a giocare poi in campo Internazionale?».

Oggi poche società hanno ancora una struttura famigliare come quella descritta nelle pagine del libro, oggi il calcio business impone strutture estremamente verticalizzate e complesse, in cui ogni professionista ha il suo ruolo circoscritto a confini ben definiti, e non tutte le squadre hanno un contatto diretto ed aperto con gli uomini vertice.

«Lenzini era il presidente vecchio stampo, spendeva i suoi soldi per amore della squadra, per farla crescere, era un padre buono, Cragnotti era il cavaliere bianco, che dopo tanti anni di Serie B era riuscito a riportare la Lazio in alto, grande stratega, ha fatto investimenti mirati che non si erano mai visti nel calcio, Lotito è più il presidente dei numeri, che ha preso la Lazio quando non la voleva nessuno, potenziando le basi solide di un club per arrivare in alto».

Il cuore di Manuele Baiocchini è legato a quegli anni raccontati e oggi riporta nella sua professione quelle emozioni applicandole in un calcio sempre più organizzato alla perfezione e che non concede tanto spazio alla naturalezza, ma in cui vincere è l’unica cosa che conta e, come disse Sven Goran Eriksonn, per far sì che realizzi: «Si deve credere sempre».