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Esclusiva

Aprile 25 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Aprile 27 2020
Il faro della libertà

75 anni da quel 25 aprile 1945. “Resistenza” è una parola che continua a unire e dividere allo stesso tempo. Ne abbiamo parlato con Marcello Flores, partendo dalle ultime parole di un giovane partigiano condannato a morte

Parma, 4 maggio del 1944.

Cari Compagni, 

ora tocca noi. Andiamo a raggiungere gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria dell’Italia. 

Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio, ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella. 

Siamo alla fine di tutti mali. Questi giorni sono come gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuole fare più vittime possibile.

Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care.

La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio.

Sui nostri corpi si farà grande il faro della Libertà

Giordano Cavestro detto Mirko, diciotto anni, studente di scuola media, nato a Parma il 30 novembre del 1925. All’età di 14 anni fonda un bollettino antifascista attorno al quale si mobilitano numerosi militanti, gli stessi che dopo l’8 settembre daranno vita alle prime attività partigiane nella zona di Parma. Catturato dai fascisti  il 7 aprile, processato il 14, fucilato il 4 maggio del 1944. Poco meno di un anno dopo sarebbe arrivato il 25 aprile, il giorno della Liberazione. Le giovani generazioni di allora combattevano per la Libertà, quella di cui parlò Mirko poco prima della sua fucilazione. La stessa Libertà con cui fu ricostruito il paese. Oggi ricorrono 75 anni da quel 25 aprile del 1945, giorno in cui l’Italia rinacque. Abbiamo raggiunto al telefono Marcello Flores, storico e accademico italiano. 

Professore, chi erano i giovani di quel tempo?

Persone che si sono trovate di fronte ad una scelta: combattere il nazifascismo o obbedire alla Repubblica sociale, pena la fucilazione. Ma pensiamo anche alla scelta autonoma fatta dalla donne, anche loro giovanissime, che non ebbero l’urgenza di dover sfuggire ai bandi militari di reclutamento, ma che dovettero  comunque scegliere da che parte stare. Questa fu una generazione a cui venne posto un dilemma: stare dalla parte del mondo che fino a quel momento li aveva educati o prendere in mano il futuro dell’intero paese. In quel momento i giovani erano quelli che non avevano colpe, al contrario delle generazioni più anziane che avevano aderito e si erano entusiasmati per Mussolini. Le lettere dei partigiani condannati a morte sono il lascito morale, esistenziale e politico più significativo di quella generazione che ha fatto la resistenza. 

Cosa è cambiato da allora? 

Tutto, direi. Oggi non c’è una divisione politica e generazionale, la  stessa che a quel tempo aveva permesso l’emergere dei giovani come forza trainante del futuro e della democrazia. Credo che la storia successiva abbia reso difficile la possibilità che le giovani generazioni potessero svolgere un ruolo di questo tipo, per fortuna vista la tragedia della guerra.

Come preservare l’eredità di quel periodo?

La resistenza è la nostra democrazia e la nostra Costituzione, va difesa, ricordata e, se occorre, anche migliorata come già accaduto in passato. Serve una visione seria e completa di quello che è stato quel periodo, sottraendolo alla dialettica di contrapposizione di stampo politico e ideologico di chi vorrebbe negare o dimenticare quella esperienza che è un pezzo di storia fondamentale e che oggi abbiamo la possibilità di ricostruire nella sua complessità: nelle sue luci e nelle sue ombre, ma che va ricordata come un momento cruciale della nostra storia. Spesso invece la resistenza è oggetto di battaglie di memoria più che di apprendimento storico. Una polemica ideologica che spesso anche i media accentuano, invece di dare spazio a alle ricostruzioni storiche.

Cosa significa oggi la parola “resistenza”?

Su questa parola si è fatta un po’ di retorica. Spesso si fa riferimento a cose diverse e anche meno tragiche rispetto a quelle per cui bisognava resistere nella primavera del ’45. Allora c’era la necessità di contrapporsi  ad un regime di occupazione dittatoriale, ad un totalitarismo feroce che voleva la distruzione di chiunque cercasse la libertà in tutta Europa. Oggi si tratta di capire a cosa si vuole resistere e ognuno porta avanti il proprio obbiettivo, ma il rischio è che il risultato sia un grande mosaico di resistenze senza un filo che le accomuni. C’è chi si vuole resistere alla globalizzazione, alle disuguaglianze, alla mancanza di meritocrazia o ad altre cose. Al giorno d’oggi però non vedo un richiamo a quello che è stato il 25 aprile di 75 anni fa. E’ necessario capire cosa è stato il fascismo e cosa è stato l’antifascismo: due questioni che ormai appartengono ad una capitolo chiuso. Ma bisogna anche interrogarsi sulla rinascita di un neofascismo – diverso, spesso più aggressivo di quello del passato – e su come contrastarlo.