Attenzione! Questo articolo è stato scritto più di un anno fa!
!
Esclusiva

Dicembre 7 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Gennaio 20 2021
Le nostre nuove solitudini. Come il virus ci ha cambiati

La pandemia ha modificato i nostri gesti e il nostro modo di stare con gli altri, di vivere lo spazio esterno

L’altro giorno un mio interlocutore ha fatto una battuta. Ho sorriso, per dimostrare il mio divertimento, ho sorriso nonostante la mascherina mi coprisse mezza faccia. Per manifestargli la mia reazione, ho esagerato la mia espressione, ho stretto gli occhi, alzato la fronte, provato a far sporgere gli zigomi oltre l’elastico bianco che si aggrappa alle orecchie. Ma non sono sicura che la persona dall’altra parte abbia capito. 

Il coronavirus ha mutato le nostre abitudini e sta cambiando a poco a poco anche la nostra prossemica, la grammatica delle nostre azioni. Ci adattiamo e ci inventiamo nuovi gesti, nuove espressioni, nuove scappatoie per ristabilire un contatto con l’altro, ormai tenuto a una distanza che appare siderale, sempre più lontano, inconoscibile, imperscrutabile. 

Cosa pensa? Oggi è triste? È felice? “Te lo si legge in faccia” è una frase che non vale più nemmeno mezzo soldo bucato.

Non possiamo più stringerci la mano, allora andiamo di gomito o di mano sul cuore, come ha prescritto con minuzia bizantina l’Organizzazione Mondiale della Sanità. 

Abbiamo imparato a scavare argini e fossati, a proteggerci da tutto ciò che è esterno a noi, al nostro corpo. Ridisegniamo di continuo lo spazio che ci circonda. 

Armati di un compasso immaginario ogni volta che usciamo di casa, che ci incontriamo, tracciamo una zona di sicurezza, un cerchio pseudo magico calcolato e ricalcolato alla bisogna per mettere al riparo la salute nostra e di chi ci sta intorno. Fermiamo quel passo in più, già pronto a scattare per accorciare la lontananza.

Fuori dalle invisibili trincee che abbiamo eretto, tutto sembra rimasto uguale eppure ci ripetiamo che tutto è cambiato, tutto – i luoghi familiari, le persone care, i tragitti conosciuti, quelli che non conosciamo ancora-  è diventato una potenziale minaccia. Un paradosso che la mente processa a fatica e accetta perché non si può fare altrimenti.  

Ci aggiriamo circospetti, censori implacabili di gesti e abitudini, ripiegati su noi stessi, ci facciamo piccoli piccoli. Una carezza, un abbraccio, tutto vietato. Keep your distance. Scommetto, però, che pure chi ha sempre odiato il contatto fisico, ha avuto tempo e prove a sufficienza per ricredersi. 

Siamo diventati tante nuove piccole solitudini, tante bolle che comunicano a fatica, la voce che arriva ovattata da strati di tessuto protettivo, o da un collegamento internet che funziona a scatti. L’individualismo  è diventato una forma corrente di altruismo, una nuova virtù morale e civica.

Gli altri sono alieni, nel senso originario della parola estranei da cui guardarsi, da cui proteggersi, eppure sconosciuti da proteggere a nostra volta.  Bisogna grattare la superficie, togliere via lo strato spesso di questa nuova diffidenza, della circospezione che ha messo a regime le nostre vite. Allora lì sotto ritroviamo l’amico fidato, il compagno di studi, il collega di lavoro: scopriamo che è sempre lui. 

Accidenti, dove eri finito? Non ti riconoscevo più.