Attenzione! Questo articolo è stato scritto più di un anno fa!
!
Esclusiva

Dicembre 29 2020
Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino

Il romanzo-inchiesta che ha squarciato il silenzio sulla dipendenza dalle droghe a metà degli anni 70

Ci sono parole che sgorgano leggiadre dalla penna dell’autore anche quando spalancano abissi di morbosità – «Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta» – e altre che sono pugni nello stomaco. Quelle di Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, appartengono alla seconda categoria.

La storia vera di Christiane F., il nome completo è Christiane Vera Felscherinow, è una finestra sull’abisso della droga e un pretesto per parlare dei drammi esistenziali che vivono i giovani. La dipendenza è il gancio che tiene uniti i temi sviscerati dallo stile crudo e duro degli autori, Kai Hermann e Horst Rieck. Sono due giornalisti del settimanale tedesco Stern, che incontrano Christiane durante un’intervista programmata con lei per discutere della situazione giovanile.

È il 1978 e mentre in Italia le Brigate Rosse rapivano il segretario della DC Aldo Moro Hermann e Rieck incontrano per la prima volta la ragazzina «bucomane» che presta il volto alla parabola discendente di Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino. Nella prefazione al romanzo scrivono: «Erano previste due ore per il colloquio, diventarono due mesi. Presto ci ritrovammo non più nel ruolo degli intervistatori ma in quello di ascoltatori estremamente coinvolti. Dalle trascrizioni delle bobine registrate dei colloqui è nato questo libro.»

 In Germania l’opera uscirà l’anno seguente, nel nostro paese sarà edita per la prima volta da Rizzoli nel 1981. La protagonista è Christiane F., che conosce le droghe per la prima volta a 12 anni e ne fa uso fino a 16. Attorno a lei orbitano altri personaggi: un padre violento, la madre troppo presa dal lavoro, Detlef tossicodipendente e suo primo amore, gli amici drogati che uno a uno finiscono in due righe di necrologio sul giornale. Il racconto è intervallato da stralci di testimonianze dirette di sopravvissuti, genitori, operatori sociali e agenti di polizia. La storia della protagonista e le parole degli altri si alternano in questo libro inchiesta che è un romanzo corale e una manata sulla coscienza. Un tentativo di squarciare il silenzio sul problema della droga che attanaglia Berlino e l’Europa tutta a metà degli anni ’70.

Christiane inizia a fumare hashish, poi gli acidi – «ero felice, adesso ero sballata proprio bene» – pasticche ed eroina, prima sniffata e poi iniettata in vena. «L’effetto arrivò davvero come una martellata. Ma un vero orgasmo me lo ero immaginato diversamente. Subito dopo ero completamente abbrutita. Non percepivo quasi più nulla e non pensavo a niente.» Da qui è un biglietto di sola andata verso gli inferi.

A volte è difficile empatizzare con lei, che si sente una spanna sopra gli altri tossicodipendenti e fin da piccola ha imparato «il gioco di esercitare il potere sugli altri». Cresce a Gropiusstadt – periferia di Berlino – in un quartiere casermone pieno di cemento e costellato di cartelli di divieti nelle aree giochi. «Ci dovevamo far venire in mente qualcosa che fosse terribilmente proibito» dice allora, ed ecco il gioco crudele degli ascensori. «Acchiappavamo un bambino, lo chiudevamo in una cabina e premevamo tutti i bottoni. Tremendo era premerli a qualcuno che voleva salire perché doveva pisciare. Alla fine se la faceva sotto là dentro.»

Christiane la scaltra, Christiane che vive come sopra un’altalena. E con lei dondola il lettore, su su fino alle vette di un trip venuto bene e poi giù nelle vie fangose di Bahnhof Zoo, la fermata della metro dove la protagonista baratta il suo corpo acerbo di bambina per qualche grammo di eroina. Il cuore diventa piccolo quando nel libro si racconta che lei e Detlef vivono a casa di un cliente fisso del ragazzo, che si prostituisce per avere i soldi necessari ad acquistare la prossima dose. Il denaro è per tutti e due, come macabro dono d’amore Detlef compra eroina per entrambi. Quando ha finito con il proprietario di casa, passa nel letto con Christiane e possono stare insieme «come due innamorati». Eppure, «quando Detlef era sballato e io ero pulita tra di noi non c’era nessun feeling.» Di nuovo l’altalena emotiva della protagonista, il lettore segue con il fiato corto mentre cerca di sospendere ogni forma di giudizio moraleggiante.

Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino racconta due mondi, che però non sono quello dei buoni e quello dei cattivi. Da quello apparentemente per bene Christiane fugge, perché il padre violento e la madre assente- poi nel corso del libro la assolverà almeno in parte- non rappresentano per lei una vera famiglia. I legami più forti li stringe nell’altro microcosmo, quello di sballati e bucomani costretti a rubare per procurarsi una dose e però anche capaci di gesti di penosa solidarietà. Come aiutare uno a bucarsi, o regalargli un po’ della propria roba. La protagonista non si adegua neanche a questo mondo, è un susseguirsi di disintossicazioni e tuffi nel baratro.

«Siamo completamente soli in questa valle della follia», è una delle ultime righe del romanzo. E forse è vero, come forse è vero che l’epilogo di questa storia è il proseguire sereno di un’adolescente fragile cresciuta troppo in fretta. Ai pochi che non lo conoscono, il consiglio è leggere Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino. A chi vuole sapere com’è finita, il consiglio è leggere La mia seconda vita, autobiografia di Christiane Vera Felscherinow.

Leggi anche: Il lockdown ha fatto sballare la canapa light