«Al Wall Street Journal ho spiegato come usare i tool per riconoscere i deepfake: foto, video e audio prodotti dagli algoritmi. Il lavoro dei giornalisti è anche questo, riconoscere i falsi. Ieri come oggi». Ricercatore al MIT Media Lab e alla Columbia University, Francesco Marconi è uno dei maggiori esperti di automazione e intelligenza artificiale applicate al giornalismo. In Newsmakers: Artificial Intelligence and the Future of Journalism, si fa le domande che agitano il settore e che molti in Italia preferiscono non porsi. L’uso degli algoritmi e delle macchine intelligenti sarà la fine del giornalismo di oggi? O sarà forse il suo salvatore?
Già responsabile ricerca e sviluppo del Wall Street Journal, Marconi offre una nuova prospettiva sul potenziale di queste tecnologie. Spiega come reporter, editori e redazioni di ogni dimensione possono trarre vantaggio dalle possibilità che forniscono per sviluppare nuovi modi di raccontare storie e connettersi con i lettori. La sua idea di partenza è chiara: giornalisti e proprietari dei media non sono al passo con le nuove tecnologie. Serve uno scatto di consapevolezza, in America come in Europa: «L’intelligenza artificiale deve essere al centro del nostro modello di business».
Al momento, i robot AI svolgono compiti di base, come scrivere brevi storie sui risultati sportivi o sull’andamento giornaliero della Borsa. È ciò che accade all’Associated Press, dove Marconi ha lavorato in passato, reduce da uno stage alle Nazioni Unite. Ma l’intelligenza artificiale può anche far risparmiare tempo ai reporter trascrivendo interviste audio e video. Lo stesso vale per i rapporti su inquinamento o violenza, che si basano su vasti database. Le macchine possono analizzare dati complessi in un batter d’occhio.
Oggi il programma dell’AP produce quasi 7 mila articoli al trimestre. «Sport e finanza restano i temi più adatti all’AI, visto che questi pezzi nascono quasi sempre dai numeri» scrive Marconi, 34 anni, italo-portoghese che vive a New York. Intanto Xinhua, l’agenzia di stampa del governo cinese, ha testato un telegiornale con un conduttore creato a tavolino: «Tra qualche anno potremo personalizzare il nostro anchorman scegliendone il sesso, il volto, la voce e persino la lingua». Secondo l’esperto, presto l’AI ci aiuterà a raggiungere nuovi pubblici.
Ma allora cosa resta al giornalista, quale potrà essere il suo ruolo? «Il reporter svolge un lavoro essenziale di verifica dei fatti, contestualizzazione e raccolta di informazioni. L’intelligenza artificiale difficilmente potrà sostituirlo: gli esseri umani resteranno al centro dell’intero processo giornalistico». L’AI sarà quasi un segretario del giornalista, che attraverso un’analisi dei dati velocissima lo aiuterà nella produzione di contenuti elaborati e creativi.
L’ottimismo di Marconi non è condiviso da tutti, nel mondo accademico non mancano voci più critiche. Ma le sue previsioni si fondano su basi solide: «Un uso intelligente dell’AI è pensato per aiutare i giornalisti in due modi. Il primo, che coincide con la fase dell’automation, è quello di sollevare i reporter da compiti ripetitivi e macchinosi. Il secondo è quello di rendere più efficiente il processo giornalistico: coincide con la seconda fase, la cosiddetta augmentation». In questo modo, i giornalisti avranno più tempo da dedicare agli approfondimenti e potranno dare le notizie più rapidamente.
«L’AI non è tra noi per eliminare posti di lavoro. Solo l’8-12% degli attuali compiti dei giornalisti sarà assunto dalle macchine, che riorienteranno i redattori verso contenuti a valore aggiunto: giornalismo di lunga durata, interviste, analisi, ma anche giornalismo investigativo e basato sui dati». Perché sono i reporter, assieme a ricercatori come Marconi, che devono sviluppare gli algoritmi. In base alle loro esigenze e ai loro principi editoriali e affidandosi all’istinto, la cosa più umana che c’è. Unendo old values e new media.