«“Senti gli uccelli cantare”, mi diceva il mio operatore Miki Stojicic sul fronte in Iraq. Ed è così: in guerra si sentono gli uccelli cantare, ma poi arriva l’autobomba che spazza via tutto». Un incontro di due ore su giornalismo e guerra, in cui gli aneddoti di un’inviata sul fronte si mescolano alle domande di chi ascolta. Lucia Goracci è collegata dal suo appartamento di Istanbul, città in cui vive e lavora come corrispondete Rai dal 2017, coprendo tutte le vicende che riguardano il Medio oriente. Dall’altro lato dello schermo ci sono i 24 praticanti della Scuola di giornalismo della Luiss.
Classe 1969, laureata in Scienze Politiche alla Luiss a Roma nel 1992, Lucia Goracci entra come praticante nella redazione della TGR Sicilia, dove resterà fino al 1999, anno in cui si trasferisce nelle testate nazionali Rai per occuparsi di cronaca, fino ad arrivare alla redazione esteri del TG3. «L’unica cosa buona della guerra in Iraq del 2003 è stata il mio passaggio alla redazione esteri», dice scherzando durante la presentazione, passando poi a rispondere alla domanda su come ci si prepara la prima volta che si va in guerra da inviato: «Ricordo quando l’allora direttore Antonio Di Bella mi mandò in Iraq per la prima volta, riportandomi l’esempio di Ilaria Alpi. È necessario affidarsi ai colleghi anziani che ci sono già stati, e avere al tuo fianco una persona che ti insegna con quale passo muoverti, così come la scelta del driver e di chi ti porta in un contesto di conflitto».
«Ricordo anche quando a Fallujah il mio driver non mi faceva restare più di 20-30 minuti in un posto a fare le interviste. I sistemi di allertamento anticipato non funzionano e il pericolo ti arriva addosso, te ne accorgi solo dopo che è arrivato: un’esplosione la senti dopo che ti piomba sulla testa. Anche a Mosul le truppe irachene ci tenevano lontani dalle donne con i lunghi burqa neri, per timore che potessero essere dei kamikaze. Fidarsi delle persone che scegli di portare con te è essenziale, ed è da questa fiducia tra giornalisti, fixer e cineoperatori che in guerra poi nascono dei sodalizi eterni».
Fino ad arrivare alla descrizione del lavoro di reporter in contesti di calamità naturali, come ad esempio il terremoto di Haiti del 2010: «Nelle catastrofi naturali ti ritrovi a instaurare un contatto intimo con gli sfollati perché ti ritrovi a vivere come loro. Arrivammo in una Haiti completamente collassata, senza possibilità di trovare rete elettrica da nessuna parte. Tutte le sere per entrare in una casa di fortuna dovevamo fare lo slalom tra i catini d’acqua in cui le mamme lavavano i bambini. Non ho nessun imbarazzo a dirlo: quando al ritorno di quel viaggio entrai nella Repubblica Dominicana, alla vista della normalità della vita turistica scoppiai in un pianto ininterrotto, il primo dopo 21 giorni ad Haiti».
Ma l’insegnamento più importante da tenere a mente per Lucia Goracci è la capacità di empatizzare con chi si va a raccontare, proprio per non correre il rischio di documentare realtà che non esistono: «Quando senti il freddo con dei rifugiati sfollati a Baghouz o a Kobane, quando con loro hai paura delle pallottole e devi abbassare la testa per non essere colpito, quando ti addormenti sotto un tetto a cielo aperto ad Haiti diventa difficile non riuscire a veicolare quello che succede intorno a te».
Senza mai perdere di vista uno degli obiettivi principali, che è il non lasciarsi strumentalizzare dalle parti coinvolte nella guerra, un rischio che ogni inviato corre quando racconta una crisi: «In guerra non c’è mai una verità assoluta: quando ero protetta dall’esercito curdo durante la liberazione dall’Isis nel 2015, entrando in Iraq oltre l’Eufrate vidi che i villaggi arabi si erano spopolati, gli abitanti avevano seguito i miliziani dell’Isis per paura della vendetta curda. L’ho dovuto raccontare, anche se nei confronti dei curdi avevo un debito di riconoscenza per la protezione che mi concedevano. In guerra sei sempre al seguito di qualcuno che cerca di chiuderti gli occhi o di farti vedere solo ciò che vogliono mostrarti».
Non sono mancati poi i commenti alla situazione attuale in Turchia, la censura della stampa locale, il sofagate, lo scontro diplomatico tra il capo di stato turco Recep Tayyip Erdogan e il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi e il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul, che per Goracci è stata «una mossa quasi esclusivamente di politica interna». Ma i racconti dal fronte hanno occupato gran parte del seminario, compresi i saluti, ricordando il paese dal quale non riesce ad ottenere più un visto da giornalista, la Siria: «Un giorno fui accompagnata ed espulsa da un ufficiale siriano sul versante libanese, e da allora non sono mai più entrata lì, e questo mi manca molto. Il ricordo più forte che porterò dentro per sempre è quando fui interrogata ad Aleppo per ore dagli ufficiali dell’esercito di Assad. Con me c’era il mio traduttore italo-siriano, del quale mi fidavo ciecamente. Mentre parlavamo con gli ufficiali riuscì a bisbigliarmi all’orecchio “Lucia, se da qui faranno uscire solo te e non me, ti prego, non mi dimenticare”».