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Esclusiva

Febbraio 19 2022
«No fear, be strong». La storia di Michele

La transizione di genere è un cammino difficile, a volte reso più complesso anche dal contesto in cui si vive

I tatuaggi sul corpo di Michele sono come le pagine di un libro. Ogni tappa del suo percorso è incisa sulla sua pelle.

«Tra la prima visita al Policlinico di Bari e l’inizio della transizione è passato più di un anno. Le liste d’attesa sono lunghissime. È stato in quel momento che mi sono tatuato sulle gambe No fear, be strong: niente paura, sii forte. Era un modo per dirmi di resistere ancora e non smettere di crederci. Subito dopo mi richiamarono dall’ospedale. Potevo finalmente avere la vita che sognavo fin da quando ero un bambino».

Michele è un uomo di 27 anni che non ha mai conosciuto altre realtà al di fuori di una piccola città in provincia di Bari. Il contesto in cui è cresciuto non l’ha aiutato nella sua adolescenza. «C’era chi mi apprezzava per quello che ero, chi non voleva proprio saperne nulla di me. Alcuni genitori dicevano ai propri figli di non frequentarmi e di non uscire con me. Come se fossi un delinquente o una persona pericolosa. Vaglielo a spiegare che sono una persona normale e che non ho nessuna colpa. Qui sono tutti un po’ più ottusi, è stato difficile lottare con questa situazione».

Soprattutto quando, ad appena 14 anni, gli è stato fatto credere che fosse lui la causa del tumore della madre. Per quello che era, perché voleva essere se stesso. A quella età non aveva armi per opporsi a un pensiero del genere. È entrato talmente tanto nella sua testa, che ha pensato di cambiare, illudere sua madre di essere una persona che non era, solo per guarirla dal suo male. Così, per alcuni mesi, ha indossato abiti femminili, è uscito di casa con la matita nera intorno agli occhi, nascondendo la sofferenza che da dentro lo logorava. Finché non ce l’ha più fatta.

«Ho fatto sedere mamma sul divano e le ho detto come stavano veramente le cose. Il mio non era un capriccio né tantomeno un periodo passeggero in cui preferivo avere l’aspetto di un maschio. Io volevo essere un ragazzo. La mia famiglia, per fortuna, mi ha compreso e mi ha dato completa libertà di scelta. I miei genitori sapevano già da allora che avevo intenzione di intraprendere, una volta cresciuto, un percorso che potesse rendere la mia vita più simile a quella che sognavo». Occasione che arriva nel 2017 e che viene ricordata con un altro tatuaggio, la data scritta in numeri romani.

Dopo 18 mesi di psicoterapia e cure ormonali, con la relazione che gli viene rilasciata, può finalmente chiedere il cambio del nome al tribunale. È anche abbastanza fortunato, perché non deve aspettare molto per i nuovi documenti, già pronti a qualche mese di distanza dall’invio della richiesta. Poi, nell’ottobre del 2019, affronta la prima operazione, la mascolinizzazione del torace, e per la prima volta si sente davvero libero.

Libero di non indossare più quella stretta fascia intorno al petto, che per anni l’ha compresso talmente tanto da lasciargli i segni sulla pelle. Torna a respirare. Torna al mare senza maglietta e senza paura di ricevere sguardi indiscreti e non richiesti dalla gente intorno a lui.

Michele

«Credo che la transizione non sia uguale per tutti. Io ho deciso di sottopormi a due operazioni – all’istero-annessiectomia (asportazione di utero e ovaie) quattro mesi dopo la prima – perché volevo avvicinare il mio corpo all’identità di genere che ho sempre percepito. Però siamo tutti un po’diversi».

Il primo classico preconcetto nei confronti delle persone transgender è pensare che tutte vogliano andare incontro a una modifica del proprio aspetto. La realtà, però, è un’altra. Chi sente di avere un’identità di genere non allineata al sesso biologico può decidere di affermare se stesso anche senza ricorrere a terapie ormonali o chirurgiche.

Come si legge su infotrans.it – primo portale istituzionale europeo che fornisce informazioni al riguardo – «i percorsi seguiti dalle persone transgender sono molteplici ed è fondamentale non ragionare per categorie precostituite ma porsi in una posizione di ascolto e sostenere le persone nel loro percorso».

Tra le varie figure che hanno sostenuto Michele ce ne sono due in particolare. «Vicino a me ho sempre avuto mia madre e se oggi sono il ragazzo che sognavo di essere è grazie a lei, che mi è stata accanto più di qualsiasi altra persona. Le ho dedicato l’ultimo tatuaggio: un leone sulla schiena con gli occhi verdi come i suoi».

«Anche i miei nonni, che mi hanno cresciuto, mi sono stati molto vicino. Mio nonno passa a trovarmi al lavoro quasi tutte le mattine per chiedermi come sto. Il suo bene è indescrivibile, non si può quantificare, e io sono davvero orgoglioso di portare il suo nome».

Al momento Michele lavora in una pizzeria. Negli anni ha avuto diversi problemi a livello lavorativo. Si è dovuto arrangiare più volte, perché, prima della transizione, chi guardava il suo curriculum notava solo che il suo aspetto non corrispondeva al nome che leggeva e, per questo, non lo assumeva.

Ha rinunciato anche al calcio, quando, raggiunta una certa età, doveva giocare per regolamento in una squadra femminile, e a una carriera nell’aeronautica, perché costretto a vivere nella palazzina delle donne. C’è qualcosa, però, che nessuno gli ha mai tolto: la passione per le moto. «La moto è la mia libertà, lo specchio della mia anima. Sono arrabbiato, prendo la moto. Sono felice, prendo la moto. Dico sempre che la vita vista da dentro il casco è molto più bella. Si vive a pelle la velocità, il luogo, qualsiasi cosa».

Per il suo futuro Michele sogna una carriera nel mondo della moda. Esser stato finalista al “Bellissimo di Italia”, qualche anno fa, ha avuto un grande significato per lui, perché prima non poteva neanche immaginare di partecipare a una competizione del genere. «Pensare di intraprendere la carriera di modello transgender qui è un’utopia, ma niente è mai perduto. Spero che un giorno potrò cambiare ancora una volta la mia vita, allontanarmi dal mio paese e stare con persone che mi capiscono e mi valorizzano per quello che sono».

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