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Esclusiva

Marzo 25 2022
L’America Latina e il labirinto della mente nei Fratelli D’Innocenzo

Damiano D’Innocenzo incontra la stampa estera del Premio Globo d’oro in occasione della presentazione del terzo lungometraggio in co-regia con il gemello Fabio

Gli occhi di Elio Germano su cui insiste spesso la regia dei Fratelli D’Innocenzo, i piani strettissimi sul suo volto, immergono già lo sguardo del pubblico in un mondo «al singolare, che si richiude in se stesso» e genera fantasmi della mente. È un modo per comunicare senza mediazioni un «senso di disagio e fastidio, che prima ti fa pensare che il film non ti appartenga, per poi farti entrare dentro la sua dimensione». Parla di sensazioni ancor prima che di struttura e tecnica, Damiano D’Innocenzo mentre presenta America Latina alla giuria del Premio Globo d’oro. «Volevamo fare un film in cui il dialogo non fosse necessario, in cui le parole fossero vuote e non muovessero in avanti l’azione. Quasi un film muto in cui è l’immagine che conta, che sta al centro».

Un’immagine fredda, spaventosa, che «comunica il calvario di un uomo che si perde nelle sue paure e nei suoi difetti fino ad arrivare a compiere azioni tremende». In questo assolo di Elio Germano – personaggio borderline, dai tratti oscuri ma mai del tutto mostruoso –  in realtà l’altra grande protagonista è la regia di Damiano e Fabio D’Innocenzo, che ormai al terzo lungometraggio scolpiscono uno stile riconoscibile e autoriale, nonostante rifuggano questa definizione. Per loro si tratta solo di «non dare più del Lei al cinema, sperimentare il cinema che si desidera fare non quello che andrebbe fatto seguendo i maestri, che è la prima premessa per un brutto film».

Raccontare la trama di America Latina senza rovinare il senso della visione è però impossibile, oltre che ingiusto nei confronti di una costruzione chirurgica della tensione, misurata inquadratura dopo inquadratura. «Questo film dura novanta minuti e non poteva durare un minuto di più, avremmo tirato troppo la corda e lasciato spazio a virtuosismi leziosi». È uno specchio che si infrange pezzo dopo pezzo a ogni scena, fino a restituire il riflesso frammentato e distrutto di un uomo solo e tormentato.

Ogni volta che Elio Germano scende giù per le scale della sua cantina, dove si nasconde il suo oscuro segreto, scende nel personale inferno del suo personaggio, Massimo, «abbracciandolo emotivamente, senza giudicarlo». Al pubblico rimane il compito di accogliere questa catabasi e provare a sbirciare a sua volta nell’abisso e nel labirinto della sua mente.

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