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Esclusiva

Maggio 9 2022.
 
Ultimo aggiornamento: Maggio 16 2022
«Ho scoperto la mafia quando ha ucciso mio marito»

La storia di Arcangela e Marianna, vedove dei fratelli Luciani uccisi dalla mafia garganica nella “Strage di San Marco in Lamis”

«La mia vita è cambiata con una telefonata», dice Marianna, «quando mi hanno detto che mio marito era stato assassinato». Per Arcangela, sua cognata, il 9 agosto 2017 «si è scoperchiato il vaso di Pandora». Quel giorno i loro mariti, Aurelio e Luigi Luciani, sono morti solo perché testimoni inconsapevoli e scomodi di una vendetta tra clan. La mafia garganica Arcangela Petrucci e Marianna Ciavarella l’hanno scoperta quella torrida mattina d’estate. E con loro il Paese intero.

I fratelli Luciani erano due onesti agricoltori di San Marco in Lamis, un paesino nell’entroterra della provincia di Foggia. Innocenti, uccisi a sangue freddo solo perché avevano assistito all’omicidio del boss Mario Luciano Romito e suo cognato, che invece dovevano morire, come impone la legge mafiosa, per un regolamento di conti, per pagare un tradimento.

Luigi e Aurelio passavano lì per caso. «Non erano attesi, poteva capitare a chiunque» dice Arcangela. Sono morti sulla strada verso il Tavoliere, nei pressi della vecchia stazione ferroviaria in disuso. Freddati in un Fiorino bianco, mentre andavano a lavorare la loro terra. Vittime di una mafia arcaica e brutale, arroccata sul promontorio e ormai riconosciuta come una delle consorterie criminali più pericolose della Penisola. Oltre 360 omicidi negli ultimi trent’anni, per lo più irrisolti e aggravati da una particolare efferatezza: la cifra stilistica sono i colpi al volto per sfigurare i nemici uccisi, privarli di identità e memoria nella morte.

«Ho scoperto la mafia quando ha ucciso mio marito»

Eppure «qui non si era mai chiamata mafia», continua Arcangela, «per me la mafia era solo in Sicilia, i Corleonesi. Quello che ci presentava la tv nazionale. Ricordo solo che, quando ero adolescente, si sentiva passare la notizia di qualche agguato nei dintorni, pochi minuti e sempre su tv locali». Per tutti si trattava solo di «quattro delinquenti che si ammazzavano tra di loro» e questo ha giustificato il radicarsi di un forte atteggiamento omertoso. «Era come se la cosa non ci toccasse. Pensavamo: “Non ci appartiene, noi siamo in un mondo a parte”». Così la mafia è rimasta un fenomeno inspiegato, senza nome, che ha finito per impadronirsi del territorio. Tollerato non solo dall’opinione pubblica, ma anche dalle istituzioni.

Stessa tragedia, storie diverse

Il 9 agosto 2017 quel mondo nascosto ha squarciato la vita della famiglia Luciani, nonostante questa con la mafia non avesse nulla da spartire. Aurelio e Marianna avevano all’epoca due figli adolescenti e una bambina di sette mesi nel grembo materno. Antonio, figlio di Luigi e Arcangela, di mesi ne aveva 11 quando hanno ucciso suo papà.

«Ho scoperto la mafia quando ha ucciso mio marito»

«È stato il periodo più oscuro della mia vita», dice Marianna. «Io non potevo straziarmi, perché ero incinta e avrei perso anche la bimba. Volevo strapparmi i capelli ma non potevo permettermelo, sarebbe stato un lusso». Racconta di un vuoto incolmabile e di una paura che non sa descrivere. «La mia bambina in grembo si è agitata. L’ho sentito: ha percepito tutto il mio dolore, lo abbiamo vissuto insieme. Mi ha fatto capire: ‘Mamma ci sono anche io qui’, altrimenti mi sarei buttata in quel vuoto. L’istinto materno mi ha portato al rifiuto totale, non riuscivo a comprendere nemmeno la dinamica. Ho vissuto contemporaneamente infinita gioia e infinito dolore, non è stato semplice. La gioia di una bimba, la figlia di Aurelio. Lei è stata una rinascita, mi ricorda lui tutti i momenti. Mi dà gioia e dolore. Nata quando il padre è morto».

Arcangela ha invece realizzato subito che tutto per lei sarebbe cambiato. «Una vita stroncata così. Ho pensato spesso a quante cose avrei ancora voluto dirgli». Quel giorno è corsa sul posto ma le hanno impedito di avvicinarsi, «mi ha salutata quella mattina presto come faceva sempre, mentre io ero nel dormiveglia. E non l’ho visto più». «All’inizio avevo voglia di fuggire anche di notte», continua Arcangela, «come se andando in un altro luogo potessi dimenticare il mio dolore. Poi ho capito che non volevo scappare». Pur travolta dalla tragedia, ha iniziato a maturare la determinazione che oggi caratterizza il suo impegno. «Mi sono detta: ‘devo stare qui a testa alta, in prima linea. A chiedere verità e giustizia per mio marito, ma soprattutto per questo territorio’».

«Ho scoperto la mafia quando ha ucciso mio marito»

È l’inizio della sua battaglia, con la nuova consapevolezza «pagata a caro prezzo» che le ha svelato la realtà. «Ho aperto gli occhi. Ho capito che quel velo di omertà non mi aveva mai protetta, solo illusa e impaurita». Non è vero che chi si fa gli affari suoi campa cent’ anni: «Mio marito si è fermato a 47e mio cognato doveva compierne 44». Dopo il parto, anche Marianna ha dovuto fare i conti con quanto accaduto. «Tutto il dolore represso è esploso. E con esso la rabbia, che ho tramutata in impegno, perché se l’avessi tramutata in odio sarei come loro».

Dopo il quadruplice omicidio dell’agosto 2017, dopo la “strage di San Marco”, molto è cambiato. «Allora si è iniziato a parlare di mafia, la più pericolosa d’Italia», seconda forse solo alla ‘ndrangheta. L’opinione pubblica nazionale e le autorità hanno dovuto ammettere che la lunga scia di sangue che da decenni imbrattava il Gargano e la provincia di Foggia era opera mafiosa. «Ci volevano due innocenti, come se prima non fosse mai successo niente».

«Ho scoperto la mafia quando ha ucciso mio marito»

Un unico impegno

Il processo per la morte di Luigi e Aurelio non è ancora concluso. Il giudice di primo grado ha condannato all’ergastolo l’unico imputato, Giovanni Caterino, che quel giorno avrebbe fatto il basista. Dopo il 9 agosto però molti non hanno più potuto fingere di non vedere, in primis le istituzioni. «Negli ultimi anni il lavoro delle forze dell’ordine è stato straordinario, io ho visto quanto hanno fatto per arrestare Caterino. Tutti i reparti hanno collaborato», dice Arcangela.

«Ho sempre avuto fiducia nella giustizia. Ci vuole pazienza, attendere risposte, le cose non si fanno in un giorno, però dopo cinque anni mi sembra siamo sulla strada giusta». Ma, continua Marianna, «nulla toglie che la nostra parola, la nostra testimonianza offra qualcosa in più. Non solo per dare giustizia a Luigi e Aurelio, ma anche per far emergere il grande problema di questo territorio, di tutti noi che ci abitiamo».

Luciani

«Io non voglio essere né un’eroina né una martire. E non voglio spostare l’attenzione dalla tragedia che colpisce questa terra sulla povera vedova che annoia e che urla. No, grazie», continua Arcangela, «ciò che è successo riguarda tutti». Bisogna, dice Marianna «alzare la testa per andare avanti e trovare giustizia. La voce è il mezzo che abbiamo. È il nostro strumento, buono anche a non far chiudere le indagini. Perché la mafia sul nostro territorio si combatte anche così: quanti casi sono stati archiviati, chiusi senza risposta? A volte penso che, nella disgrazia, siamo state fortunate: almeno abbiamo una tomba su cui piangere».

Le due donne sanno che senza la spinta di un movimento sociale tutto sarebbe vano. A San Marco, Arcangela e Marianna hanno fondato nel 2018 il primo presidio di Libera di tutto il Gargano, intitolato a Luigi e Aurelio Luciani. Sul loro esempio ne sono nati altri sul promontorio, a rinfoltire una rete provinciale che si fa più attiva, che cerca di rispondere ai soprusi della criminalità con diversi progetti, con la formazione e la partecipazione civica. Per sensibilizzare i più giovani, per aiutare la gente a non avere più paura. A Foggia, il 10 gennaio 2020, quando già diversi attentati si erano verificati dall’inizio dell’anno, erano in decine di migliaia alla manifestazione “Foggia Libera Foggia”, organizzata con l’aiuto del coordinamento nazionale e con l’adesione di centinaia di associazioni locali.

«Ho scoperto la mafia quando ha ucciso mio marito»

 «Libera nazionale ha molto seguito e più siamo meglio è. Se ad esporsi sono in pochi finiscono bersaglio ma se siamo tanti, presunzione a parte, abbiamo già vinto in partenza. Non possono ammazzarci tutti». A livello locale invece la partecipazione è ancora modesta e le denunce poche ma «la gente è più sveglia e vigile. Inizia a pronunciarsi la parola mafia, anche a voce alta». E prima non era così.

Oltre a lavorare con la sezione provinciale di Libera, che le ha accolte e supportate, Marianna e Arcangela accettano gli inviti di «chiunque voglia parlare di legalità e fare qualcosa di concreto». A gennaio, ad esempio, hanno partecipato all’inaugurazione della prima associazione antiracket Fai di Foggia, anch’essa intitolata ai loro cari. «C’erano ministri e altre personalità. Io guardo tutti negli occhi e racconto la verità, così che non possano ignorarmi» dice Arcangela. «Non punto il dito contro nessuno, non faccio nomi e cognomi (anche perché non li conosco) ma che qui c’è la mafia e ha ammazzato i miei cari lo devo dire, che voglio verità e giustizia lo devo dire. Che voglio guardare in faccia gli assassini di mio marito lo devo dire. Non vogliamo più avere paura».

Arcangela e Marianna hanno capito che il coraggio è una scelta quotidiana e lo hanno preferito al silenzio. Portano la loro testimonianza, si espongono, affinché le nuove generazioni e i loro figli ereditino una terra migliore di quella che ha impedito loro di vivere in pace.

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