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Esclusiva

Febbraio 8 2023
Una macchina da presa come arma di dissenso

La resistenza del cinema alla teocrazia iraniana passa attraverso la protesta dei registi perseguitati dal regime o in esilio

«Siamo filmmaker, per noi vivere è creare», così Jafar Panahi la scorsa estate faceva arrivare al Lido di Venezia la sua affermazione di resistenza attraverso l’arte. Il messaggio filtrava dall’ormai noto carcere di Evin a Teheran, dove Panahi era rinchiuso dall’11 luglio per aver protestato contro l’incarcerazione dei registi Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad. Condannati tutti «come criminali» per aver avuto il coraggio di trasformare le loro macchine da presa in armi di dissenso per sfidare il regime.

Panahi è riuscito a farlo anche sotto stretta sorveglianza, dirigendo il suo Gli orsi non esistono (No Bears) nella primavera del 2022, a distanza dal set e in semi-clandestinità e sovrascrivendo alla storia d’amore narrata nel film una seconda storia, al confine ambiguo tra realtà e finzione, in cui protagonista diventa il potere eversivo delle immagini e del loro stesso linguaggio. Gli orsi non esistono gioca infatti sull’arbitrarietà della rappresentazione, ragiona sul funzionamento del mezzo cinematografico come strumento di potere, nello scegliere cosa rendere visibile e cosa no. Chiama così in causa la responsabilità politica del regista, di ogni regista che sceglie di indagare in modo critico il reale.

Per questa sua scelta Panahi ha trascorso otto mesi in carcere, uscendo su cauzione per le pressioni internazionali solo lo scorso 1° febbraio, dopo aver minacciato lo sciopero della fame a oltranza. «Rimarrò in questo stato fino a che forse il mio corpo senza vita sarà rilasciato», aveva annunciato poche ore prima del rilascio, ma l’epilogo della sua storia non è ancora definitivo.

Una macchina da presa come arma di dissenso
La resistenza iraniana al cinema: Gli orsi non esistono, Jafar Panahi

Lontano da Teheran, dalla Danimarca, Ali Abbasi porta invece avanti una rivoluzione più silenziosa ma altrettanto significativa. Il suo Holy Spider si perde nelle notti della città santa di Mashhad, dove le donne che vivono libere vengono minacciate da un misterioso serial killer, intenzionato a ripulire la metropoli dal peccato. Le ciocche dei loro capelli, che sfuggono all’hijab, il rossetto, lo smalto diventano una rivendicazione sul grande schermo già mesi prima delle proteste per la morte di Mahsa Amini. Anticipano un bisogno collettivo, un urlo collettivo, trasformatosi poi in Donna Vita Libertà.

In un affollato Grand Théâtre a Cannes, lo scorso maggio, Abbasi lo dichiarava senza mezzi termini, fra gli applausi a fine proiezione: «Oggi è un giorno storico per il cinema iraniano, perché le donne hanno finalmente un corpo». A restituirglielo, ancora una volta, è la scelta del regista di rappresentarlo, di darne una forma, un contorno e una fisicità, scontrandosi con i dettami del regime.

È la scelta, come per Panahi, di usare il linguaggio del cinema per denunciare, per prendere posizione e provare a ridefinire il presente, con una macchina da presa.

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