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Esclusiva

Marzo 12 2023.
 
Ultimo aggiornamento: Marzo 14 2023
«Integriamo i migranti e la gente li richiede per affittare case vuote»

Don Geremia Acri e il modello di accoglienza di Andria: «ho trovato la cura all’emarginazione»

«Quando ho lasciato casa mia non avevo idea che non l’avrei più rivista», dice Cicciobello, 20 anni, arrivato in Italia nel 2016 a bordo di un barcone salpato dalla Libia, «non volevo partire, è stata la mia storia che mi ha messo su questa strada». È nato in Guinea nel 2003 e il suo vero nome è Diallo ma ad Andria, dove abita ora, tutti lo chiamano come il bambolotto. È un nomignolo che lui stesso usa per presentarsi, parlando quasi meglio il dialetto andriese che l’italiano. «Vivevo con una persona che mi accudiva in tutto, era lui che voleva venire in Europa», Diallo lo ha seguito per un piccolo viaggio di una settimana in un’altra città della Guinea, ma una volta lì «mi ha detto che non tornava indietro e che se io volevo dovevo vedermela da solo». Aveva dodici anni e decise di partire, per dove non lo sapeva ancora. Sarebbe stato un viaggio molto più lungo di quello che poteva immaginare.

«È stato bruttissimo» dice Cicciobello. Ha attraversato il deserto, è stato torturato in Libia da uomini armati che gli hanno spezzato un braccio e costretto a mettersi in un barcone per attraversare il Mediterraneo. «Quando ho visto il mare avevo paura e non volevo partire. È una cosa che capita a molti, ci hanno costretti a salire con le armi».  Poi la traversata, con la costante «paura di morire», fino a Lampedusa. E lì qualcosa era cambiato, «la gente era diversa, mi davano cibo, vestiti».

«Integriamo i migranti e la gente li richiede per affittare case vuote»

Oggi Cicciobello ha un contratto a tempo indeterminato con una grande azienda pugliese nel settore agricolo e il weekend lavora in un ristorante. Ha un contratto d’affitto, è autonomo e «libero», come dice lui: «Io qua sto bene assai. Vivo a casa mia non fa niente che pago l’affitto, però mi sto proprio comodo. La libertà è la libertà». Si dice «fortunato» per aver incontrato persone che lo hanno trattato come un essere umano e gli hanno insegnato la «legge», il modo di vivere in Italia. Come per tanti altri, tutto è cambiato dopo per aver incontrato don Geremia Acri, i suoi collaboratori e i circa cinquanta volontari della Casa di accoglienza santa Maria Goretti.

Integrazione efficace

Don Geremia è un prete di Andria, lì gestisce diversi appartamenti destinati ad accogliere migranti irregolari, ma anche italiani in situazione di difficoltà. Ha sviluppato un sistema educativo che ha spesso portato gli ospiti a integrarsi nella società italiana e diventare completamente autonomi. Così i migranti riescono a ripartire e costruirsi una vita dignitosa, dopo aver concluso il percorso di integrazione.

«Ora chi ha case da affittare viene a proporle in affitto ai nostri ragazzi. Quasi preferiscono loro ai propri compaesani, perché sanno che sono puntuali e rispettosi. Oggi è venuta una signora benestante ad offrire in affitto diversi appartamenti», dice il sacerdote il cui metodo richiede tempo e impegno, ma ha dato grandi risultati. «Bisogna partire dal presupposto che si tratta di gente che ha subito atrocità e ingiustizie, che ha visto bruciare la propria famiglia dai terroristi. Ci sono bambini che hanno visto uccidere i genitori», dice il parroco, «è gente arrabbiata, che facilmente cade nella violenza. Io ho trovato la cura».

«Integriamo i migranti e la gente li richiede per affittare case vuote»

Il progetto si basa sul rispetto di regole severe, che fanno parte di un «patto educativo». Nelle case di accoglienza i migranti non pagano vitto e alloggio, ricevono assistenza quotidiana, imparano l’italiano e a conoscere la nuova cultura con la quale devono rapportarsi. In cambio bisogna impegnarsi a rispettare orari, coinquilini, norme igieniche, le strutture e le necessità altrui: nessun beneficiario può venir meno, pena la perdita dell’accoglienza. Il primo avvertimento arriva dalla «mamma», una figura che aiuta nelle faccende domestiche, poi c’è il mediatore culturale e, se ancora non dovesse bastare, interviene il o la responsabile della casa. Solo in ultima istanza si interpella don Geremia: «ma a quel punto loro già sanno che è terminata l’accoglienza e che devono lasciare la struttura». Si può sbagliare e avere diverse opportunità, ma la mancanza di rispetto non è tollerata. «È doloroso ma alla fine io devo decidere, non posso sempre scherzare. È importante che capiscano e accettino i valori che noi vogliamo trasmettere». Per questo Don Geremia è una figura amata ma anche temuta. Per lui, è importante che gli ospiti capiscano che «il rispetto della legge è la massima espressione della libertà».

Così l’integrazione funziona, «è più lenta, ma efficace. Il processo educativo è lungo e si procede con gruppi di persone non troppo numerosi». Il parroco dice non condividere la strategia statale sulla questione dell’immigrazione, la reputa «troppo assistenzialista. I Cas, centri di accoglienza straordinaria, ospitano cinquanta o cento persone alla volta. Non può funzionare: c’è un percorso da fare, tessuto umano da curare». E nemmeno si può pretendere che i migranti rinuncino alla propria identità: «integrazione non vuol dire annullarsi, solo rispettare le regole del Paese che ti accoglie. Anche se di religioni diverse, loro sanno che sono un prete e mi rispettano. Nelle nostre case c’è sempre un crocifisso e mai nessuno si è permesso di toglierlo. Solo in un caso un ragazzo musulmano per il momento della preghiera lo aveva spostato e gli altri inquilini lo hanno redarguito».

Nuova vita

Più che la religione – che non è mai stata un problema nell’esperienza ad Andria – bisogna affrontare la diffidenza della gente. «All’inizio è stato più complicato», continua don Geremia, «ora le cose vanno meglio. Comunque quando serve noi ci mettiamo la faccia e garantiamo per i nostri ospiti, perché li conosciamo e sappiamo che si impegneranno a far andare tutto nel verso giusto». Per prepararli all’autonomia i volontari li propongono a chi offre lavoro, soprattutto nell’agricoltura e nella ristorazione. Poi l’organizzazione continua a sostenere tutte le spese così che possano mettere da parte delle mensilità di stipendio, così possono fare fronte a caparre, anticipi e altri costi che ci sono quando si va in autonomia.

«Il loro impegno è riconosciuto e premiato, i datori apprezzano il loro modo di lavorare e i proprietari di casa li trovano affidabili e puntuali», dice don Geremia Acri, «noi li aiutiamo solo a superare la barriera, perché la gente ha paura e diffidenza, ma non mi va di condannarla. La paura nasce dalla non conoscenza, è normale averne quando non si conoscono realtà diverse». Cicciobello e gli altri che si sono lanciati verso una vita indipendente dicono di incontrare un po’ di razzismo, ma che la grande maggioranza delle persone li tratta finalmente da pari.

In più, tiene ad aggiungere don Geremia: «noi li portiamo anche in vacanza, piccole ferie, viaggi. Tutti hanno diritto alla gioia, perché ci si sente esseri umani, anche se poveri». E di gioia ne sa qualcosa anche Diallo Alpha, un altro ragazzo dalla Guinea che ha già un lavoro e sta lasciando la casa di accoglienza per andare a vivere in autonomia: «ho un solo un po’ di paura, ma penso che andrà tutto bene. Sono emozionato, così sarà un’altra vita».

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