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Esclusiva

Marzo 13 2023.
 
Ultimo aggiornamento: Marzo 14 2023
Agli Oscar 2023 vince lo spirito del tempo

Everything Everywhere All at Once trionfa ai 95esimi Academy Awards. Sette premi su undici candidature per il film dei Daniels

«Un regista non è niente senza il suo cast e la sua crew e se il nostro film possiede grandezza e genio è solo perché grandezza e genio provengono dai cuori, dalle anime e dalle menti di chi ha contribuito a crearlo. Il mondo si sta aprendo al fatto che l’estro non proviene dagli individui, come siamo noi sul palco, ma emerge dalla collettività, siamo tutti prodotti del nostro contesto»: ringrazia così Daniel Kwan, vincitore dell’Oscar alla miglior regia insieme a Daniel Scheinert per Everything Everywhere All at Once, il Miglior film di quest’anno.

Il progetto dei Daniels, così come la coppia di registi viene chiamata, nasce infatti più di dieci anni fa, all’università di Boston, dalla folle idea di fondere Matrix e decine di altri titoli che hanno fatto la storia del cinema contemporaneo (In the Mood for Love di Wong Kar-wai, fra tutti) al tema centrale della conflittualità e del perdono fra genitori e figli, tra madre e figlia.

È una vittoria complessiva – sette statuette su undici categorie – che negli Stati Uniti non sorprende. «Era il giusto vincitore, oltre che quello annunciato», afferma Gianluca Arnone, caporedattore della Rivista del Cinematografo. «Everything Everywhere All at Once dal suo punto di vista è il vincitore perfetto per questa 95a edizione, perché è l’emblema dello spirito dei tempi. È un film molto inclusivo, sulla diversità, sulle minoranze. È il primo film nella storia degli Oscar a dare la possibilità di vincere a due asiatici nati in America, ovvero uno dei due Daniels, Daniel Kwan e il produttore Jonathan Wang», ma soprattutto è un film che non sarebbe stato concepibile prima del metaverso e del multiverso.

Everything Everywhere All at Once è estremo, oltre che innovativo. Non è soltanto la storia di una famiglia cinese immigrata, ma è soprattutto una storia al femminile – come testimoniano anche i due premi a Michelle Yeoh e Jamie Lee Curtis, miglior attrice protagonista e non protagonista – in un anno che conta un’esigua presenza di storie raccontate da donne rispetto alle edizioni precedenti. «Se c’era un elemento di debolezza in questa grande festa dell’inclusività che sono diventati gli Oscar era il fatto che ci fosse soltanto un film diretto da una donna tra i dieci candidati a Best Picture. Women Talking (di Sarah Polley, ndr) ha ottenuto comunque il premio alla miglior sceneggiatura non originale e mai come quest’anno abbiamo visto tra i film candidati dei ruoli femminili così belli». E anche storie personali e maschili come The Fabelmans di Steven Spielberg hanno riservato ampio spazio a grandi attrici: Michelle Williams nel ruolo della madre del regista, in questo caso.

Spielberg stesso, nonostante fosse favorito almeno alla vittoria della miglior regia per anzianità e carriera, si “arrende” all’onda festante di Everything Everywhere All at Once, con un sincero applauso che fa da passaggio di testimone, da un vecchio ragazzo che ha trasformato il cinema a due nuovi ragazzi che lo stanno rivoluzionando alla loro opera seconda. «È stata una sorta di paternità riconosciuta a posteriori», secondo Arnone, soprattutto in riferimento alla vittoria di Ke Huy Quan, miglior attore non protagonista, che Spielberg diresse circa quarant’anni fa in Indiana Jones e il tempio maledetto (1984).

Come intuibile dalle premesse, a partire dalla scelta di un presentatore affidabile e sicuro, Jimmy Kimmel, che nel 2018 seppe gestire lo storico errore dell’annuncio al Miglior film, i 95esimi Academy Awards si sono rivelati più conservatori rispetto al recente passato. Hanno stupito nella scelta di premiare una canzone originale indiana Naatu Naatu – del film RRR – anziché le più probabili Lady Gaga e Rihanna, ma sono stati meno radicali, ad esempio, dei BAFTA britannici di poche settimane fa che invece hanno premiato per la prima volta un film Netflix, Niente di nuovo sul fronte occidentale di Edward Berger.

«Netflix aveva fatto la campagna Oscar per White Noise e Bardo (film di Noah Baumbach e Alejandro González Iñárritu, presentati entrambi a Venezia, ndr), non aveva previsto il movimento sollevato dalle diverse Guild» – le associazioni di categoria di registi, sceneggiatori, produttori – a favore del film di Berger. «Lo ha cavalcato in seguito e un po’ a sorpresa, perché prima di tutto non è un film di guerra eccezionale, però è riuscito a catturare lo spirito del tempo». Il suo messaggio antibellico è infatti forte e attuale.

Il bilancio finale non può che essere positivo, perché è stato costruito per essere tale ed equilibrato. Per la prima volta da diversi anni nella categoria Best Picture si è riusciti anche a rappresentare al meglio l’intera industria cinematografica statunitense: «Ha vinto un film indipendente, che ha fatto fatica ad avere successo fuori dagli Stati Uniti, tanto che in Italia esce in sala per la terza volta con la speranza di superare il primo milione di incassi. Era accanto però ai due trionfi del box office, Avatar e Top Gun: Maverick, in un assortimento vario che prova ad accontentare tutti i gusti. Atteggiamento che si è rispecchiato nella cerimonia vecchio stampo, corretta, garbata ma frizzantina, senza scivoloni e soprattutto senza schiaffi». La notte è trascorsa sul modello dell’istituzione di tanti anni fa, «quella che è un po’ ci rassicurava. Tra momenti di commozione e di gravità è andato tutto come doveva andare».

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