«Dovete conservare le vostre fonti perché vi aiutano. Dovete rispettarle anche se sono nemici e uccidono i vostri fratelli, le vostre sorelle, i vostri figli», è il monito di Yuval Bitton, il dottore che vent’anni fa ha curato il terrorista Yayha Sinwar, ex leader di Hamas ucciso nell’ottobre 2024 in un raid israeliano sulla Striscia di Gaza. L’ospite della redazione di Zeta, in Italia su invito della Jerusalem Foundation, parla con tono accorato, scruta gli interlocutori con gli occhi velati dalla malinconia. Riconosce l’atrocità della guerra, la sofferenza sia di Israele sia del popolo palestinese.
Nel 2004, Bitton ha salvato la vita a Yayha Sinwar nella prigione di Beersheba. A quel tempo il medico israeliano non poteva sapere che, anni dopo, il suo paziente malato gli avrebbe inflitto un lutto familiare, orchestrando l’attacco di Hamas contro lo Stato ebraico del 7 ottobre 2023. Il prezzo pagato a livello personale è la morte di suo nipote Tamir Adar – padre di due bambini di 3 e 7 anni – nel kibbutz di Nir Oz. «In 5 hanno combattuto per due ore e mezzo contro cento terroristi», racconta il dottore.
Bitton è convinto che fosse suo dovere, in quanto medico, curare in carcere palestinesi che hanno ucciso ebrei, ma ammette di aver pianto di notte. Dormiva quando sua figlia, in partenza per il Giappone, lo ha chiamato di mattina chiedendogli che cosa stesse succedendo in Israele, e di accendere la televisione. Il medico – diventato poi un ufficiale dell’intelligence – non nasconde gli errori commessi dal suo Paese: «Siamo uno Stato con un grande esercito. Abbiamo sottovalutato il nostro nemico, pensando che non potesse attaccarci».
Sin dall’inizio, Bitton sapeva bene chi fosse la mente dietro all’assalto del 7 ottobre. Conosce il pensiero e la mentalità di Sinwar, memore del tempo trascorso assieme in carcere e delle lunghe chiacchierate: «All’inizio non mi ha riconosciuto, gli ho chiesto cosa fosse successo e lui mi ha parlato di un forte dolore al collo». Da lì la decisione di trasferirlo subito in ospedale, dove i chirurghi gli hanno rimosso un ascesso potenzialmente letale al cervello: «Mi ha ringraziato dicendomi che un giorno mi avrebbe ripagato, che mi doveva la vita».
A chi gli chiede se rimpianga di aver curato Sinwar, Bitton risponde senza giri di parole: «era un mio dovere professionale come dottore, nel 2004 non pensavo che sarebbe stato rilasciato perché era stato condannato all’ergastolo cinque volte». Il rilascio di Sinwar, assieme ad altri 1026 prigionieri palestinesi, è avvenuto nel 2011 in uno scambio con il soldato israeliano Gilad Shalit. L’ex numero uno di Hamas viene descritto come un leader estremista, spregiudicato e autoritario: «Ha studiato la sharia nell’università islamica, è capace di sacrificare le sue persone».
Il medico non lascia trasparire desiderio di vendetta: «Odiare qualcuno è una debolezza, non una forza. Come ebrei non dobbiamo odiare i nostri nemici, non siamo stati educati a farlo». Il pensiero va a David Ben-Gurion, padre fondatore dello Stato ebraico: «Diceva che l’unico vantaggio di Israele tra gli Stati arabi era la moralità che dobbiamo conservare come esseri umani. Se perdiamo questo vantaggio, perdiamo la guerra».
Duro è l’attacco a Hamas, accusato di aver creato uno Stato terrorista e di rappresentare l’ideologia dei Fratelli musulmani, formazione islamista egiziana: «Per loro non abbiamo il diritto di vivere nelle nostre terre. Brucia i nostri bambini, rapisce le nostre donne. La sua ideologia consiste nell’uccidere gli ostaggi, usano le persone come scudi umani». Dal 2007, ovvero da quando Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza, per Bitton esistono due Stati palestinesi, uno guidato da Hamas e l’altro dall’organizzazione al-Fatah, che non possono raggiungere un accordo ed essere una sola cosa: «Chi è il presidente delle persone palestinesi? Chi li rappresenta?» Chiede con decisione.
Nonostante il cessate-il-fuoco e l’accordo di tre fasi raggiunto lo scorso 15 gennaio tra Hamas e Israele, la situazione resta critica. Bitton non nasconde lo scoramento del popolo ebraico, che desidera «una vita normale» ed è «in guerra dal 1948», in una regione dove per i più piccoli la sofferenza continua: “Chi vorrebbe vivere in una safe room, in un rifugio? Questa non è pace. Siamo stanchi, non vogliamo continuare a pagare il prezzo alto di vivere in Medio Oriente. I bambini vanno nei bunker, non negli asili».
Richiamando il ruolo di Qatar, Egitto, Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti come mediatori nelle negoziazioni internazionali, Bitton non ha dubbi e esprime le sue preoccupazioni. L’unica speranza per il futuro di Israele si chiama Donald Trump: «Da lui dipende la seconda fase dell’accordo. Se pressa su Hamas e su Netanyahu andrà a buon fine. In caso contrario, non sono ottimista sul rilascio degli ostaggi».