E anche il terzo tentativo del governo italiano di esternalizzare le frontiere è risultato un fallimento: i 43 migranti salvati in mare e deportati in Albania dovranno tornare in Italia per essere sottoposti alle procedure ordinarie delle richieste d’asilo. «Un’altra Caporetto», «la pietra tombale sulle politiche migratorie di Meloni», «un disastro politico». Queste sono solo alcune delle reazioni da parte delle opposizioni dopo che i giudici della Corte d’Appello di Roma hanno sospeso il giudizio sulla convalida del trattenimento dei migranti, provenienti da Egitto, Bangladesh, Gambia e Costa d’Avorio, deportati nel Centro italiano di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gjader martedì 28 gennaio.
All’inizio erano 49, ma quattro di loro sono stati riportati subito in Italia perché minorenni assieme ad altri due considerati vulnerabili. La decisione della Corte d’Appello non sorprende perché «non ha fatto altro che ricordare che sono pendenti rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia europea (Cgue) che sono partiti non solo dalla sezione speciale per l’immigrazione di Roma, ma anche da molti altri tribunali, come quelli di Bologna e di Palermo», spiega a Zeta Gianfranco Schiavone, socio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).
Il 30 dicembre scorso anche la Cassazione con un’ordinanza interlocutoria ha rinviato la questione all’Unione europea per chiedere un’interpretazione definitiva del concetto di “Paese sicuro” dei richiedenti asilo a cui poter applicare le procedure accelerate. E la Cgue si esprimerà a riguardo il 25 febbraio. «In questa vicenda – continua l’avvocato – ciò che mi colpisce è che il governo abbia voluto proporre la medesima procedura sapendo che c’erano ricorsi ancora pendenti. È un fatto totalmente inedito».
Schiavone si riferisce al decreto-legge adottato dal governo il 23 ottobre 2024 quando la sezione immigrazione del tribunale di Roma non aveva convalidato il trattenimento dei 12 migranti all’interno del Cpr albanese dopo che le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale avevano respinto le loro richieste d’asilo. Il decreto avrebbe dovuto rendere operativo l’accordo tra l’Albania e il nostro Paese, firmato nel novembre 2023 dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il premier Edi Rama. Il protocollo prevede che le persone soccorse in mare provenienti da Paesi considerati sicuri dal governo dovranno essere portate nei centri albanesi, ma gestiti e pagati dall’Italia, per essere sottoposti alle procedure accelerate di frontiera e, in un secondo momento, essere espulsi.
Finora nessuno dei tre tentativi è andato come Meloni sperava. Ma da tutta la faccenda emergono altri punti critici e uno di questi riguarda le tempistiche: da quando i migranti arrivano in Albania le Commissioni territoriali hanno 48 ore di tempo per accettare o respingere le richieste d’asilo. E sempre entro due giorni dalla loro decisione, è necessario che un giudice convalidi o meno i trattenimenti. In sostanza, secondo Schiavone, si tratta di «una disperata corsa contro il tempo con il rischio di esaminare queste domande senza poter fare un’analisi approfondita. C’è una sproporzione tra le risorse umane a disposizione e il numero di pratiche da sbrigare: immaginiamo se invece che 43 i profughi fossero stati 200».
In più si pone la questione della difesa legale perché, dice Francesco Ferri che svolge attività di advocacy per Action aid, «le persone sono entrate in contatto con l’avvocato o con l’avvocata nominati per difenderli nelle udienze solo il giorno prima e questo rende la possibilità che possano esercitare il diritto alla difesa in maniera consapevole soltanto formale e non sostanziale».
Un altro problema riguarda il metro di valutazione della vulnerabilità delle persone deportate. Gli screening sanitari fatti a bordo della nave della Marina italiana Cassiopea – che ha portato i profughi soccorsi in mare – sono stati effettuati dai medici del corpo militare. «Si tratta della cosiddetta contraddizione dei beneficiari per cui un dottore che appartiene a un ordine gerarchico, per quanto possa essere bravo dal punto di vista professionale, si trova a dover rispondere da un lato al paziente e dall’altro a una catena di comando: a chi dà retta il medico?». È l’interrogativo che si pone Nicola Cocco, dottore e membro della Società italiana di medicina per le migrazioni (Simm).
Secondo la legge, i medici delle forze dell’ordine possono occuparsi di civili solo in caso di calamità o in massima urgenza, ma non è questo il caso perché, continua Cocco, «si tratta di una procedura che nasce da un protocollo che è addirittura una legge dello Stato». Da quando vengono prelevati a quando arrivano in Albania, i migranti sono sottoposti a tre screening sanitari, ma il primo, effettuato sulla nave, non prevede nessun certificato scritto: «Sembra che considerino questo progetto talmente importante da sospendere l’articolo 32 della Costituzione, in cui è scritto che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».