Ancora prima che i partigiani salissero sulle montagne e cominciassero a combattere, donne, tipografi, sacerdoti, insegnanti e operai davano inizio alla Resistenza, senza imbracciare fucili. Il rischio era sempre lo stesso: la propria vita. «Ci sono tante azioni pericolose che sono state necessarie, e soprattutto oggetto di una scelta di campo consapevole. Quelle donne e quegli uomini sapevano di sfiorare la morte» ha detto lo storico Giuseppe Masetti, direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in Ravenna e provincia. Che si facesse parte di una formazione partigiana o che solo si collaborasse «non c’erano processi, si veniva giustiziati al volo».
Per decenni la storiografia ha sottovalutato la lotta non armata nella Resistenza, poi «a partire dagli anni Novanta si è avviato un discorso sui civili, soprattutto sulle donne, spostandolo dalla Resistenza come puro fenomeno militare». A dare inizio a tutto sono stati gli operai. «Gli scioperi del 1943-1944 sono le prime manifestazioni uniche in Europa di dissenso al regime nazi-fascista, di occupazione, non avvengono da nessun’altra parte». Seppure il decreto luogotenenziale del 1945 attribuiva la definizione di “partigiano combattente” solo a chi aveva partecipato ad almeno tre operazioni militari, queste azioni sono ugualmente significative. «Gran parte dei deportati politici che sono finiti nei campi di concentramento di Mauthausen e Dachau erano gli operai del triangolo industriale, o anche le donne del tessile di Prato e i portuali di Genova, tutte le grandi concentrazioni operaie che si sono mosse a livello sindacale».
Ma la lotta per la liberazione non è stata condotta solo da chi popolava le fabbriche, tutti coloro che ci credevano hanno dato il loro contributo. C’erano ad esempio i tipografi che pubblicavano la stampa clandestina come quelli di Conselice, in provincia di Ravenna: «Cinque addetti alla tipografia clandestina, che era scavata sottoterra e stampava giornali per tutta l’Emilia-Romagna, sono stati catturati, mentre fuoriuscivano da lì sotto con le mani sporche d’inchiostro, nessun’arma addosso, ma sono stati ugualmente fucilati».
Anche alcuni parroci hanno contribuito ad aiutare la popolazione civile nel suo sforzo per la liberazione. È in questo senso emblematica la «foto di don Luigi Piazza, parroco di San Valentino, in provincia di Forlì, affianco a Romeo Corbari e in mezzo agli altri partigiani, con la pistola nella fondina sotto la tunica. Rende l’idea del senso di complicità che c’era tra clero e combattenti».

Pure le suore non sono state da meno, come quelle del «collegio di San Giuseppe a Lugo», in provincia di Ravenna, dove c’era una piccola comunità ebraica. Come racconta Masetti, fu lì che «nascosero i bambini delle famiglie ricercate e una delle suore litigò addirittura con due tedeschi a colpi di forcone perché non fossero scoperti i piccoli». L’assistenza ai ricercati, che fossero partigiani o ebrei fa parte delle azioni di lotta non armata nella Resisteza. Tra chi li ha aiutati in Italia c’è stato anche Gino Bartali, il campione di ciclismo. Bartali percorreva 185 chilometri al giorno pedalando avanti e indietro tra Assisi, dove c’era una stamperia clandestina, e Firenze. Nel tubo della sua bici infilava i documenti falsi che il vescovo del capoluogo toscano poi distribuiva agli ebrei per farli espatriare. Così, fingendo di allenarsi per tutti quei chilometri, il ciclista ha salvato 900 ebrei.
Meno nota è invece la storia di Vittorio Zansi, commissario prefettizio di Cotignola, un piccolo angolo di Romagna, poco distante da Lugo, che ha avuto il riconoscimento di “Città dei Giusti” dallo Stato d’Israele. Zansi riuscì a mettere in piedi una rete di solidarietà in tutto il paese. Era lui stesso però che «portava a casa degli ebrei rifugiati – provenienti da Bologna e Ferrara e fatti passare per sfollati – delle carte d’identità numerate, regolari e autentiche perché li compilassero con i loro dati e scampassero alle deportazioni».
I partigiani sulle montagne sapevano quanto ogni gesto fosse fondamentale. Ad esempio, l’organizzazione delle Brigate Garibaldi prevedeva al suo interno anche le Squadre di azione patriottica (Sap). «Si trattava di persone occupate che continuavano a fare la loro attività nelle officine, nei campi, nei luoghi di lavoro, senza esporsi troppo – specifica Masetti – ma refuso spazio che erano utili quando c’era da aiutare i combattenti». Il padre dello storico era un meccanico, ma era a lui che i partigiani si rivolgevano per far aggiustare armi e pistole.
Una ragazza nella pineta di Classe, vicino a Ravenna, ha fatto il pane per i partigiani del distaccamento “Garavini” Le donne stendevano le lenzuola in modi diversi per segnalare la presenza dei tedeschi, dintorni di Ravenna ottobre 1944
Ci voleva sangue freddo per compiere delle azioni anti-regime alla luce del sole perché qualsiasi imprevisto poteva far saltare la copertura e condurre alla morte. «C’erano una volta delle sorelle che dovevano attraversare il fiume Reno con una valigia piena di armi. – racconta Masetti – arrivate al guado, un fascista della X mas controllare si offrì di aiutarle e disse “come pesa questa valigia” e una delle ragazze con grande prontezza di spirito rispose “Ah, ci credo è piena di armi” e lui la portò senza dire niente».
Questo è solo uno dei tanti episodi, «il lavoro delle donne è stato prezioso e riconosciuto». Tra le tante che hanno dato la vita e lottato per la libertà e la democrazia c’è soprattutto Ines Bedeschi «la madre di tutte le staffette partigiane romagnole». «Dopo che il marito è andato in Africa con i volontari delle camicie nere a cercare fortuna lei si mise a disposizione degli antifascisti. Si innamorò anche di un commissario politico del Partito Comunista, Umberto Macchia, che la portò con sé a Parma, dove organizzava la distribuzione della stampa e degli ordini di partito fino a febbraio 1945, quando venne catturata e torturata dalla Gestapo per due mesi e bruciata con il ferro da stiro. Sarà poi uccisa alla fine del marzo 1945 sulle rive del Po».
Tutti i gesti anche quelli più piccoli, come stendere le lenzuola in un certo modo per segnalare la presenza dei nemici o fare il pane per sfamare i partigiani, hanno permesso che l’Italia diventasse un paese libero e democratico. Al pari della lotta armata nella Resistenza c’è, quindi, quella non armata di un popolo che unitariamente si è mobilitato, affinché gli oppressori fossero scacciati e questa è una lezione da non dimenticare mai.

Si ringrazia l’istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in Ravenna e provincia per le foto