È l’autunno del 1943. A San Donà di Piave, Maria lavora in uno iutificio. Ha 48 anni, poche parole, un passato pieno di rassegnazione e una vita che scorre sempre uguale. Finché qualcosa si incrina, a partire da un incontro. Una collega più giovane la mette in contatto con i partigiani del Basso Piave. Maria, spinta da un bisogno muto di senso, si unisce alla brigata Eraclea guidata da Attilio Rizzo: comincia così una doppia vita. In apparenza, operaia e madre; in segreto, staffetta, combattente, custode. È la storia nella Storia di Di fulmini e tempesta, di Chiara Polita.
Un giorno le viene affidato un bambino ebreo da nascondere di nome Giacomo. Un altro giorno, una mappa con due nomi e una promessa da decifrare. Nello stesso tempo, da Venezia arrivano tre fascisti: li guidano la furia e l’ossessione. La caccia è serrata e l’aria si fa più pesante. Maria deve scegliere se restare spettatrice o affrontare il suo passato. Alla fine, imbraccia le armi spinta da un senso di giustizia mai nascosto dalle sue parole e da quelle trovate negli altri. Come quando scorge su un bigliettino di Rizzo la frase di una poesia: “Dov’è l’acclamata chiassosa vittoria? / Nel sangue de’ spenti? Tal morte è una gloria?”. E qualcosa dentro di lei si risveglia.
Recensione “Di fulmini e tempesta”, di Chiara Polita
Il romanzo racconta una resistenza intima, fatta di fango, acqua e fatica. Maria non è un’eroina scolpita. È timida, fa fatica a pronunciare tante delle frasi, dei motti in cui più crede. Ma sbaglia, resiste e sa alzarsi, ergersi a figura di riferimento. Come il fiume Piave che attraversa quelle terre, non si lascia arginare. L’autrice la segue con rispetto, con una lingua che scava e si piega senza forzare.
Tra i personaggi che Maria incontra c’è Lucia Schiavinato, fondatrice del Piccolo Rifugio. Figura storica reale, nel romanzo porta luce. Insegna a Maria che esiste una forma di amore che accoglie, non giudica. Le sue azioni, come nascondere un bambino o custodire una radio clandestina, non fanno rumore. Ma spostano tutto. L’incontro tra le due donne è il cuore emotivo del libro. Polita costruisce un intreccio solido, fatto di missioni partigiane, mappe cifrate, fughe e tradimenti. Ma quello che resta è altro. È il gesto minimo che cambia una traiettoria. È il modo in cui Maria comincia a guardare gli altri e se stessa. È la paura che non blocca, ma rende vigili.
La scrittura ha qualcosa del miglior neorealismo. Ma senza nostalgia: non idealizza, non estetizza la miseria. Non alza mai il tono più del dovuto. Segue i corpi, li ascolta ed è tramite le loro voci che induce a riflessioni. La guerra entra nei dialoghi, nelle abitudini, nel silenzio delle scelte. Anche nei proverbi che Maria si ripete per stare in piedi.
Uscito nell’anno dell’80° anniversario della Resistenza, Di fulmini e tempesta non arriva per caso. È un romanzo che restituisce corpo a chi spesso relega la Storia al margine. Non solo donne, ma donne mature, silenziose, abituate a non alzare la voce. Maria diventa partigiana senza proclami. Perché ha visto, ha capito e ha deciso solo di osare. C’è qualcosa di necessario, oggi, nel raccontare storie così. In un tempo in cui la parola “resistenza” rischia di diventare generica o vuota, questo libro le restituisce un volto, un corpo. Una scelta. Senza eroismi imposti: solo con il coraggio di cambiare direzione. Anche da soli o da sole, come Maria. Di fulmini e tempesta non è solo un romanzo storico, è un racconto di metamorfosi di un luogo e un tempo. Una donna qualunque attraversa la Storia e ne esce diversa. La memoria collettiva passa anche da qui: da chi non cercava la gloria ma ha deciso di restare umana.