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Esclusiva

Aprile 22 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Aprile 24 2020
Con le app di tracciamento saremo davvero “Immuni”? Il caso asiatico

È polemica per la decisione del governo di introdurre una tracing app per i malati di coronavirus. Le esperienze asiatiche e le funzionalità di Immuni spiegate da uno degli sviluppatori

Violazione della privacy o tutela della salute? Questi gli interrogativi su Immuni, l’app di tracing (tracciamento) allo studio del governo italiano per combattere il Coronavirus. Le forze politiche si dividono, gli esperti si interrogano. Il premier Conte assicura: «Uso su base volontaria, nessuna discriminazione». Eppure, l’Italia non è l’unico Paese a sperimentare questo strumento. Nell’Estremo Oriente, i casi di Singapore e della Corea del Sud sono già modello di studio.

app immuni

Come viene usata la tecnologia di localizzazione in Asia 

Nei due Paesi sono state rilasciate delle app con sistemi di localizzazione per obbligare i positivi a restare in casa. Queste permettono di intercettare ogni loro spostamento, sia per monitorarli, sia per ricostruire le cerchie di persone potenzialmente a rischio per un contatto diretto. Questi programmi hanno inoltre permesso di creare una mappatura dei casi, isolando le zone a rischio e rallentando la diffusione del virus. 

In Corea del Sud, nella fase iniziale, il problema era stato sottovalutato. Il 27 febbraio il presidente Moon Jae-in aveva dichiarato «[Il virus] passerà in un momento», poco prima dell’esplosione della pandemia. Troppa sicurezza, forse incoraggiata dal clima elettorale. Il caso Shadowy Church ha fatto divampare la pandemia: si tratta di un culto localizzato nel distretto di Daegu che predicava la guarigione attraverso il contagio reciproco. Paradossalmente, questo ha permesso di isolare il cluster di diffusione primaria dell’epidemia, permettendo al Paese di adottare immediatamente misure drastiche immediatamente dopo la scoperta del culto.

App Immuni
L’app Corona 100m del governo sudcoreano

L’app scelta dal governo coreano è stata Corona100m, che attraverso il confronto incrociato fra dati Gps privati e dello Stato ha permesso di monitorare gli spostamenti dei cittadini, che la installavano su base volontaria. La tecnologia di localizzazione, più invasiva del Bluetooth (scelto per il caso italiano), ha permesso di contenere le infezioni al prezzo della privacy. Un sistema di notifiche avvisa l’utente se nel raggio di 100 metri è presente una persona contrassegnata come “infetta”.

Anche i privati hanno potuto attingere dalle informazioni governative sui contagiati: da qui la nascita di app alternative (ma con dataset identico) come Corona Map e Coronaita. Fra le funzioni del programma, oltre al tracing, anche la possibilità di avere un contatto diretto con medici e infermieri e un servizio governativo di aggiornamento sulla pandemia. L’alta informatizzazione della popolazione coreana, specie nelle aree urbane, ha permesso all’app di avere una diffusione significativa, seppur non particolarmente pervasiva; per la popolazione locale solo un invito al download, l’obbligo vale per i cittadini che rientrano dall’estero. 

Diversamente da quanto avvenuto in Corea del Sud, Singapore è stato uno dei primi Paesi a mettere in atto misure restrittive ingenti. Ciò è dovuto agli stretti legami commerciali con la Cina, ma anche alle dimensioni relativamente ristrette del Paese. La città-stato conta 23 milioni di abitanti e ha una densità abitativa molto elevata. Inoltre, le passate esperienze pandemiche (SARS e AH1N1) hanno portato Singapore alla creazione del National Centre for Infectious Diseases (NCID), una struttura aperta nel 2019 con lo scopo specifico di contenere eventuali epidemie. Giusto in tempo, verrebbe da dire.

I controlli sui voli dalla Cina continentale, specie quelli provenienti da Wuhan, sono iniziati a fine gennaio, in concomitanza con l’annuncio della trasmissibilità da uomo a uomo del Sars-Cov-2. Il governo, similarmente al caso coreano, ha affiancato alle misure di contenimento un’app di tracing, TraceTogether. Similarmente a Immuni, la tecnologia scelta è stata il Bluetooth: una notifica avverte l’utente se nel raggio di due metri è presente una persona contrassegnata come infetta.

I dati sono raccolti sui dispositivi e ivi archiviati e coperti da crittografia: solo gli utenti, in caso di necessità, hanno la possibilità di trasmettere le proprie informazioni sensibili alle autorità. L’app è stata sviluppata dall’Agenzia governativa per la tecnologia (GovTech) con il coordinamento del Ministero della salute.

Il caso italiano: l’app Immuni

La Bending Spoons Spa, su mandato del governo italiano, ha sviluppato Immuni, l’app nazionale di tracing per l’emergenza cornavirus. La parte relativa al diario clinico è stata curata dal centro medico Santagostino. È proprio il CEO della rete di poliambulatori, Luca Foresti, a presentare il progetto: «L’app è uno strumento al servizio del governo, va affiancata ad altre misure. […] Immuni ha tra le caratteristiche il Bluetooth, l’anonimato e la volontarietà». Il programma sarà disponibile per il download in coincidenza con la fase due del lockdown, anche se si ipotizza una fase di beta testing (sperimentazione) in determinate regioni.

App Immuni
Luca Foresti, Ceo del Centro Medico Santagostino. Photo credits: ANSA

«[L’app] raccoglierà informazioni cliniche rilevanti per il Covid-19 – prosegue Foresti sulle pagine di ANSA – e sulla base delle risposte dell’utente fornirà informazioni o indicazioni, anche in questo caso, a seconda di quello che il governo vorrà mettere in campo». La palla passa dunque all’esecutivo, che potrà decidere di affiancare al Bluetooth la più invasiva tecnologia di GPS.

Nel suo intervento alla Camera del 21 aprile, Giuseppe Conte ha confermato che l’app Immuni non sarà obbligatoria e che si cercherà di evitare ogni forma di discriminazione legata al suo possesso. La reazione della popolazione, così come l’efficacia della misura, sono tutte da vedere.