Attenzione! Questo articolo è stato scritto più di un anno fa!
!
Esclusiva

Maggio 20 2020
Tra Macondo e una tapparella alzata

La quarantena ci ha costretti a venire a patti con noi stessi. Le giornate cicliche e monotone hanno reso entusiasmanti azioni scontate per la vita di tutti i giorni, la solitudine ha mostrato la semplicità nel volersi bene e sentirsi vicini

Tra Macondo e una tapparella alzata

La poca luce che entra dalle fessure della tapparella, insieme alle cinque sveglie interrotte con violenza, è il segnale per un nuovo giorno. Mi sveglio, ma so già che sarà uguale a quello che è appena passato. Non ho mai dormito con la tapparella abbassata o la tenda chiusa. Dovunque io mi trovi ho bisogno, da sempre, che la luce del sole entri prepotente nella mia camera. Una pratica che è cominciata con la quarantena per permettere a qualcosa di poter definire in modo netto la mia giornata, forse. Una tazza piena di caffè e una moka monca. Difficile rimpiazzarla, ha perso il suo manico in piena fase 1 e ricomprarla non è una necessità. «Ti mando una caffettiera nuova?», chiede mia madre al telefono mentre cerco di versare il caffè nella tazza senza rovesciare nulla, e per la maggior parte delle volte ci sono riuscita. Alzo la tapparella e spalanco la finestra, come ogni giorno gli arrivi e le partenze dei treni, nel piazzale esterno della stazione Tiburtina, continuano ad aggiornarsi e scambiarsi di posto senza spettatori ansiosi di trovare il proprio binario.

Tra Macondo e una tapparella alzata

Da un po’ di giorni è arrivata la primavera, la mia stagione preferita in città: gli alberi in fiore, le giornate con gli amici a Villa Ada, il giubbotto di pelle e le converse nere. Finite le lezioni online chiudo il pc e mi allontano dalla mia caotica scrivania, che senso ha mettere in ordine quando sono consapevole che il giorno dopo ricostruirò lo stesso ordine sparso? Almeno così ritrovo sempre ciò che mi serve, o quasi. «Ragazze sto uscendo, avete bisogno di qualcosa?», chiedo alle mie coinquiline. E dopo aver raccolto le richieste mi avventuro fuori casa con guanti, mascherina e occhiali da sole e mi godo la breve passeggiata fino all’edicola. «Devo stampare un PDF e dammi anche una penna… non ne ho più. Ho così tante carte da compilare per lavoro, mica ho capito come farlo dal computer…», il ragazzo prima di me continua a raccontare all’edicolante i suoi problemi con tutte quelle scartoffie, mentre il signore che gli ha appena lasciato il posto è ancora fermo oltre l’edicola. «PDF: Piede… Di… mah» alza le spalle, un po’ scocciato per non aver trovato la giusta continuazione, settimana enigmistica sotto il braccio riprende la sua strada. «Tocca a lei signorina, può avvicinarsi, cosa prende?».

Durante la quarantena un amico mi ha detto, anzi video-detto: «La felicità è reale solo se condivisa». Mai come quel giorno, in fila davanti l’edicola, mi sono resa conto di quanto sia vero. Il soggetto della frase potrebbe essere qualsiasi cosa, non poter condividere rende tutto un po’ meno reale, dalle scartoffie lavorative del ragazzo del PDF al dubbioso acronimo del signore con la settimana enigmistica. «Ma ancora proteggi la grazia del mio cuore, adesso e per quando tornerà il tempo…il tempo per partire…il tempo di restare…il tempo di lasciare…il tempo di abbracciare…» canta Vinicio Capossela nelle mie cuffie e accompagna questo pensiero verso casa. Canticchio senza rendermi conto del gatto nero dagli occhi verdi, unico essere vivente sulla strada oltre me. Anche lui in una strana quarantena, con la tapparella abbassata e la testa fuori.

Tra Macondo e una tapparella alzata

Affacciarsi al mondo esterno, a casa, è considerata una vera e propria missione da concludere con tanto di dossier finale: quantità di persone per strada, forze dell’ordine incontrate, temperatura, eventi particolari da segnalare. In realtà uscire per fare la spesa, o altre commissioni, è diventata la cosa più interessante e affascinante durante la quarantena. «Ma secondo te dobbiamo scendere o è meglio se restiamo qui?», una domanda che ritorna puntuale ogni giorno, tra le 19 e le 19.30.  Mentre ci godiamo il cielo e il tramonto nel piccolo balcone della mia stanza, unico della casa, su cui si chiude sempre la mia giornata e la mia tapparella.  

Tra Macondo e una tapparella alzata

È solo un balcone, ma durante il lockdown mi ha salvata, insieme a Gabriel Garcia Marquez. Ho passato buona parte della fase 1 a metà tra quella ringhiera e le vie di Macondo, la città immaginata dallo scrittore in Cent’anni di solitudine.  E mentre leggevo di come «il colonello Aureliano Buendìa comprese a malapena che il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto onesto con la solitudine» ho cominciato a rendermi conto che anche io dovevo arrivare a patti con me stessa e con la solitudine della quarantena, ma sempre meglio appuntarselo anche per la vecchiaia.

Tra Macondo e una tapparella alzata

Ci siamo sentiti tutti un po’ soli e condannati a Cent’anni di solitudine da qualcosa più grande di noi. Ma poi bastava un suono, lo squillo del telefono o il rumore del citofono, per farci riconsiderare la parola stessa “solitudine”.

«È Just Eat»;
«Ma non ho mai ordinato»;
«È un regalo», un regalo!?!
«Scendo subito».

“Dalla tua amica Martina”, è così semplice volersi bene. Un cornetto in tarda serata, il pacco da giù per sopravvivere all’emergenza sanitaria: «Ti ho messo guanti, amuchina e il disinfettante. Quello lo usi per pulire bene quando torni da fare la spesa. Da mangiare ho potuto prendere poche cose- il pacco pesava 35kg- poi te ne mandiamo un altro se hai bisogno. Ah dimenticavo, la zia ha fatto i taralli, ringraziala». Un uovo di Pasqua, non a caso, perché “Quando si è lontani basta poco per sentirsi vicini” per citare uno dei biglietti. Una videochiamata solo per condividere il mare oppure una festa di laurea a sorpresa a cui partecipare con un click. È così bella la semplicità.

Tra Macondo e una tapparella alzata
Un cambio di prospettiva, dalla finestra su Roma alla Puglia

Con l’inizio della fase 2 mentre tutti cominciavano ad uscire e a vivere con cautela io ho deciso di andare incontro ad altri 15 giorni di “autoisolamento fiduciario”, così l’hanno chiamato. «Ma una quarantena non ti è bastata? Ne vuoi fare ancora!», ma tutti i Buendìa tornano a Macondo prima o poi. «Cosa fai? Scrivi?», mio fratello bussa alla porta della mia stanza. «Sì, devo raccontare la mia quarantena», gli rispondo a debita distanza. «Ah va bene, io la conosco già» e mi sorride richiudendo la porta dietro di sé, prima di tornare a casa non lo vedevo da cinque mesi. Quindi, per rispondere alla precedente domanda, una quarantena mi è bastata, ma posso sopportarne ancora per sentire bussare mio fratello alla porta. Mancano solo due giorni e poi potrò vedere il mare, non in videochiamata, sentire l’aria salata sulla mia pelle e stendermi sulla sabbia.

Leggi le altre storie di quarantena di Zeta