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Esclusiva

Febbraio 24 2023
Una generazione giovane in cerca di normalità

Arseny, Antonio, Adelina, Anna sono solo alcuni dei bambini e dei ragazzi fuggiti dall’Ucraina e dalla Russia a causa della guerra. In Italia ricostruiscono, a fatica, la propria quotidianità

«Tornare in Ucraina o rimanere in Italia dipenderà dall’esito della guerra». A dirlo è Arseny, 16 anni, il volto di un adolescente – levigato ma con qualche accenno di barba – e un recente passato molto diverso da quello della gran parte dei suoi coetanei. Il ragazzo è arrivato in Italia lo scorso marzo dopo un viaggio di 15 ore attraverso l’Europa. È scappato insieme a sua madre da Kharkiv, lasciando lì non solo il tepore della routine fatta di lezioni a scuola di musica, partite di tennis e progetti abbozzati, ma anche il padre. La guerra era entrata nella sua vita all’improvviso, sparigliando, con il rumore di un’esplosione d’artiglieria, le carte che Arseny aveva, fino ad allora, disposto sul tavolo.

«ll giorno prima andavo a scuola insieme ai miei amici, quello dopo eravamo tutti in diverse città d’Europa. Ora ogni tanto ci sentiamo, ma non so se ci rivedremo più», così aveva raccontato a Zeta il brusco distacco dalla sua realtà pochi giorni dopo essere arrivato in Italia. Ma il ragazzo, benché provato, non si era fatto abbattere e in poco tempo si era iscritto in una nuova scuola a Roma. Comunicare con i compagni di classe era stato, in un primo momento, molto difficile, ma la tecnologia era stata dalla sua e così, grazie al traduttore vocale, aveva iniziato a ricreare una sua cerchia di amici.

Oggi, a distanza di un anno dalle esplosioni che avevano ridotto in macerie case e futuro, Arseny è riuscito nell’intento di ricreare in Italia una nuova forma di normalità. «In questo primo anno sono stato molto bene. Vado agli allenamenti di tennis da tavolo, mi sento molto cresciuto». Continua ad andare a scuola, «è stato difficile ambientarsi qui. La mia materia preferita è la matematica, della lingua, l’italiano, non mi interessa più di tanto». Eppure in meno di un anno ha imparato l’italiano base e ora è pronto a intraprendere il corso avanzato.

Il volto di Arseny è entusiasta quando parla della nuova realtà scolastica e della città in cui si è trasferito: Roma. «Di Roma mi piace l’inverno, come l’estate, è bellissima questa città. Certo, manca la neve che c’era in Ucraina, dicembre in Italia è come maggio nella mia terra». Non si scompone neanche quando racconta degli amici che ha lasciato e di quelli che fa fatica a ricrearsi. «Alcuni miei amici sono rimasti in Ucraina, altri sono in giro per l’Europa. Con gli amici che sono in Europa non ho riparlato, penso che siano nelle mie stesse condizioni, frequentano la scuola e si sono ricreati la propria quotidianità. Ogni tanto parlo anche con quelli che sono rimasti in Ucraina, si sentono abbastanza bene, stanno a casa e studiano online. Qui non ho amici, ma non è un problema, non ne avevo molti neanche in Ucraina».

La sua serenità sembra incrinarsi solo quando gli si chiede di suo padre. «È ancora a Kharkiv», risponde laconico, quasi a voler proteggersi dall’unico argomento che potrebbe gettare un’ombra sulla sua imperturbabilità. Parla volentieri, invece, della madre, anche se dalle sue parole emerge un leggero fastidio per quelle che sembra ritenere condizioni lavorative non all’altezza della professionalità della donna. «Mia mamma è una restauratrice e qui sta facendo un tirocinio per non abbandonare quella che era la sua professione ma la paga è bassa. Per ora l’unica cosa che le hanno fatto fare è ripulire il travertino ed è intervenuta su un affresco a Maccarese. Per mia mamma è stato molto difficile imparare l’italiano, anche se ormai un po’ lo parla». La fatica impiegata da Arseny nel tentativo di ricostruire la propria vita e il proprio futuro è alleggerita dalle piccole conquiste quotidiane che disegnano una nuova normalità, molto simile a quella di tanti altri sedicenni. «Da quando sono qui, uso molto di più il telefono, guardo tantissimi video su Youtube. Per la maggior parte sono stupidaggini».

Soglie di una nuova quotidianità cui affacciarsi con curiosità ed entusiasmo, scrollandosi dalle spalle il peso della guerra. È quello che accade anche a Siracusa, dove, nei corridoi dell’Istituto Elio Vittorini, sotto gli sguardi inteneriti delle collaboratrici scolastiche piccole delegazioni di bimbi attraversano i confini tra la scuola dell’infanzia e la scuola primaria per scambiare visite con fratellini e sorelline. Una consuetudine inusuale per la maggior parte degli alunni, ma un bisogno incontenibile per i piccoli fuggiti dal conflitto russo-ucraino. Dallo scoppio della guerra, otto bambini, due russi e sei ucraini, hanno varcato le soglie dell’istituto. Antonio, 7 anni, e Adelina, 6 anni, fuggiti in macchina da Kiev con la sorella maggiore, i nonni e la cuginetta Nicole, ma senza i genitori, hanno ricongiunto il nucleo familiare in un’altra città e cambiato scuola. Anna, 10 anni, e mamma Natalia, una volta relegati nella memoria gli orrori delle bombe e le vite soffocate nei rifugi di Kharkiv, e due fratellini russi, scappati da Mosca con il papà timoroso di essere arruolato e la mamma giornalista contraria alla guerra, sono rimasti a Siracusa e frequentano ancora le lezioni.

Con il progetto di accoglienza La cura delle ferite di guerra, la preside Pinella Giuffrida ha garantito l’inclusione e la serenità dei bambini. Non solo con un campus estivo per favorire la socializzazione, con un corso di giardinaggio per cementare i legami e con piani di studio personalizzati per favorire l’apprendimento, ma anche con l’intensificazione del corso di italiano per agevolare la comunicazione, con il supporto di una psicologa per affrontare le paure e con il metodo peer-to-peer per trasformare gli altri allievi in indispensabili tutor. «Tra le insegnanti, i compagni di classe e le loro famiglie è scattata una gara di solidarietà verso i bambini: da chi li invita di più a casa nel pomeriggio per fare merende e compiti, a chi gioca di più con loro durante la ricreazione, fino a chi li accompagna a fare sport insieme ai propri figli. Ora i piccoli, che all’inizio si isolavano, sono splendidamente integrati nelle classi». Fondamentale è anche l’assistenza psicologica, iniziata lo scorso anno sui materassini calpestati dai piedi nudi dei bambini «per tirare fuori la rabbia e mettere dentro sentimenti buoni attraverso giochi, canzoni e pittura» e proseguita oggi con un’attenta attività di osservazione «per comprendere le dinamiche e i bisogni dei bambini, ancora tormentati da mostri difficili da abbattere, come la paura di non essere amati abbastanza. Hanno bisogno di abbracci, di affetto e di sentirsi voluti».

Le difficoltà comunicative, però, come accaduto anche ad Arseny, complicano il dialogo e incombono soprattutto sui bambini più grandi durante le lezioni. «Un insegnante vecchio stampo dotava il bambino di quaderno per ricopiare testi o colorare. Oggi, gli studenti discutono, ragionano, elaborano ipotesi e inferenze su fatti e problemi, un lavoro che per i bambini privi della padronanza della lingua diventa complicato, se non impossibile», sottolinea la preside. Per includere i bambini russi e ucraini occorrono dunque linguaggi universali come quello della matematica, disciplina nella quale i piccoli eccellono, o quello visivo, in grado di illustrare anche la storia e la geografia.

Per avvicinare ancora di più gli allievi, Giuffrida ha anche tentato di rintracciare le maestre rimaste in Ucraina, ma senza successo. «È il nostro rammarico, perché sarebbe stata una fonte di crescita per i bambini». Il successo del processo di integrazione, però, ha rasserenato le famiglie dei piccoli, formate perlopiù da mamme giovanissime. «Anche loro hanno bisogno di supporto, perché sono ancora spaesate. Alcune lavorano, ma altre non hanno neppure la macchina e confidano nell’aiuto di altre mamme». Tutte, però, sono felici per la ritrovata tranquillità dei bambini sui quali, a un anno dallo scoppio della guerra, Giuffrida ritiene «giusto spegnere i riflettori. Non mi riferisco alla stampa, ma alle nostre attenzioni, che non devono essere pressioni esagerate, ma favorire l’ingresso in un canale di normalità».

Leggilo anche in inglese: A young generation in search of normality