«Dei padri non c’è da fidarsi. Né di quelli che la natura ci ha dato, né di quelli che ci offre la società, sovrani e generali: tutti ti voltano le spalle, tutti ti tradiscono, tutti ti umiliano».
Elisabetta Rasy – dopo aver vinto nel 2008 il Premio Grinzane Cavour e nel 2015 il Premio Selezione Campiello – torna in libreria con Perduto è questo mare, un romanzo autobiografico pubblicato da Rizzoli e candidato tra la cinquina finalista dello Strega 2025. Napoli, negli anni Cinquanta, è luminosa e incantata, ma segnata dalla guerra e dall’abbandono. In questo scenario, una ragazzina viene strappata alla sua casa e al padre, figura enigmatica rimasta nell’ombra. Crede di averlo dimenticato, finché la morte dello scrittore Raffaele La Capria – suo amico e maestro – riapre la porta dei ricordi. I due appartengono alla stessa generazione, ma hanno conosciuto destini opposti: l’uno celebrato dalla letteratura, l’altro consumato dalla solitudine. Ma entrambi legati, e feriti, dalla città partenopea.
«La città a cui entrambi pensavamo parlandone era una città da cui tutti se ne andavano, un mare meraviglioso da cui tutti fuggivano, l’immagine perfetta delle illusioni perdute, un incrocio di rifiuto e rimpianto».
Perduto è questo mare è il racconto di un ritorno interiore, un viaggio nella memoria tra amori, assenze e inquietudini. Sullo sfondo, la formazione di una donna libera in un’Italia ostile a chi non si piega ai ruoli imposti. Con sguardo lucido, Rasy riflette sul legame padre-figlia, sull’amicizia e sul bisogno di dare un nuovo significato al passato per vivere meglio il proprio presente.
«Di certo c’era qualcosa di perduto e, come avrei capito solo in seguito, fu su un comune sentimento della perdita che si eresse la nostra invincibile amicizia».
La scrittrice affronta anche il tema della depressione. Dopo il trasferimento della protagonista e la madre a Roma, il padre tanto amato precipita in uno stato di isolamento e mancanza di contatto con la realtà. Diversi anni dopo, ormai adolescente, torna da lui per passare l’estate insieme. Ma quello che trova non le farà mai più sentire il senso di protezione e sicurezza che era solita provare tra le braccia del genitore. Il silenzio, la distanza da tutto e tutti, il rintanarsi in se stesso, rendono l’uomo un fantasma inaccessibile agli occhi della figlia, che non può che ripartire e rassegnarsi a vivere una vita separata da lui. Lo rivedrà solo un’ultima volta, in punto di morte, ma neanche la sofferenza dettata dal momento riuscirà a risanare il loro rapporto.
«Steso senza forze in quel letto che sembrava occupare tutta la piccola stanza, era molto diverso dall’uomo mummia della mia adolescenza: era ridiventato amabile, l’uomo cordiale e bendisposto degli anni Cinquanta. Ma non c’era tempo, non c’era più tempo, nella stanza tutta bianca e anonima, per recuperare».
Lo stile asciutto e distaccato allontana il lettore da uno degli elementi essenziali per una buona lettura: l’immedesimazione con i personaggi. Fattore esacerbato dalla scelta di non svelare mai i loro nomi e dagli aneddoti riportati nei capitoli, che risultano essere slegati tra di loro. Tutto questo contribuisce all’assenza di un filo conduttore e alla sensazione di smarrimento, che porta a chiedersi quale fosse lo scopo dell’autrice e cosa volesse trasmettere con queste pagine.
È davvero possibile incontrare di nuovo chi abbiamo perduto e ricominciare tutto da capo? È la domanda che attraversa tutto il libro, ma la risposta sembra rimanere sospesa nel tempo, come il senso stesso del romanzo. Se da un lato Elisabetta Rasy offre una meditazione intensa su lutto, perdita e memoria, dall’altro la frammentarietà del racconto e l’emotività trattenuta finiscono per delineare una narrazione che osserva da lontano, anziché coinvolgere chi legge da vicino.