Il sale si è ricongiunto alla terra. È morto a 81 anni Sebastiano Salgado, uno dei più importanti fotografi del Novecento. È celebre soprattutto per le sue intense fotografie in bianco e nero, che hanno denunciato le ingiustizie sociali e rivelato al mondo la bellezza e la fragilità della foresta amazzonica. «Ogni fotografo dipinge con la luce – spiega Alessandra Mauro, vicepresidente della Fondazione Forma per la Fotografia di Milano – e lui lo faceva in modo particolare. Ricordo un’intervista fatta tanti anni fa in cui parlava della terra da cui veniva, il Brasile. Un Brasile molto intenso fatto di profondi contrasti, bianco e nero, luce e ombra».
Nato nel 1944 ad Aimorés, in Brasile, Salgado iniziò la sua carriera come economista. Studiò a San Paolo, poi a Parigi e Londra, e lavorò per la Banca Mondiale. Proprio durante una missione in Africa cominciò a scattare fotografie. Fu una scoperta folgorante: nel 1972 abbandonò l’economia per dedicarsi totalmente alla fotografia, trasferendosi a Parigi con la moglie Lélia Wanick, con cui avrebbe condiviso tutta la sua vita e carriera. «È stato un precursore in tante cose. Anche il suo approccio da economista e il suo sguardo sempre molto allenato, molto attento alla società, ha fatto sì che poi cominciasse a realizzare i suoi lavori sui movimenti migratori, sulle emergenze planetarie senz’altro prima di altri».

Dopo un periodo da freelance, nel 1979 entrò nell’agenzia Magnum Photos, la più prestigiosa al mondo, e lavorò come reporter testimoniando eventi storici di grande rilievo, come i primi cento giorni della presidenza Reagan e l’attentato del 1981 a Washington.
«Perché il mondo dei poveri dovrebbe essere più brutto di quello dei ricchi? La luce qui è la stessa di là. La dignità è la stessa», ha detto nel 2024. I suoi lavori hanno sempre avuto al centro temi sociali, come le disuguaglianze o i cambiamenti climatici. Tra i più noti c’è Workers (1993), un’epopea del lavoro manuale, frutto di sei anni di viaggi in 26 paesi: dal Brasile al Bangladesh, dalla Polonia all’India. Negli anni successivi si dedicò a Migrations (2000), un progetto di 15 anni sulla migrazione globale: dalla campagna alle città, dai conflitti alle carestie. Visitò 43 paesi per ritrarre lo spostamento di milioni di persone in cerca di sopravvivenza e speranza.

A partire dagli anni 2000, Salgado si concentrò sul tema ambientale. Abbandonò in parte il ritrattismo per realizzare Genesi (2004–2011), un viaggio fotografico nei luoghi incontaminati del pianeta, alla ricerca delle origini della Terra. Le immagini, potenti e maestose, esploravano il legame tra uomo e natura, celebrando la bellezza e denunciando la distruzione in corso.
Negli ultimi anni, con Amazônia, ha documentato la vita delle popolazioni indigene, la foresta pluviale e le minacce esistenziali di cambiamenti climatici e deforestazione. Grazie al suo lavoro, l’Amazzonia è arrivata nelle gallerie e nei musei di tutto il mondo. «Salgado ha lasciato un’eredità molto importante, un impegno profondo nel suo lavoro per cercare di lasciare un segno nella realtà. Con la sua arte realizzava grandi reportage con una particolare attenzione verso la natura e con la sua dedizione ha creato insieme alla moglie Lelia Vanic Salgado una fondazione per il recupero di un territorio molto vasto del Brasile, quella che viene chiamata la fascia Atlantica. Un’attività che è davvero un esempio», spiega Mauro.
Il suo impegno per quella terra è andato oltre la lente dell’obiettivo. Insieme alla moglie, ha fondato nel 1998 l’Instituto Terra, con l’obiettivo di riforestare l’area della Mata Atlântica nella loro terra natale, Minas Gerais. Dove prima c’erano pascoli desertificati, oggi crescono milioni di alberi.
Nel 2014 il regista Wim Wenders, insieme al figlio Juliano Ribeiro Salgado, raccontò la sua vita nel documentario. Il sale della terra, candidato all’Oscar l’anno seguente. “Questi alberi”, dice in una scena del documentario, “piantati da appena tre mesi, raggiungeranno il loro apice fra quattrocento anni. Forse è da lì che possiamo provare a cogliere il senso dell’eternità. Forse l’eternità si può misurare”. Ha dedicato la sua vita al pianeta e alle persone che lo abitano che sono “il sale della terra”. Le sue opere gli sopravviveranno come gli alberi che ha piantato e ci ricorderanno che la morte non è nulla davanti all’eternità.
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