Blu, bianco e rosso non sono soltanto i colori di una bandiera, ma di una missione: quella dei medici cubani, atterrati all’aeroporto di Milano Malpensa circa cinque anni fa, nei primi mesi della pandemia da Covid-19.
Il nostro Paese stava affrontando uno dei momenti più bui della sua storia recente: sistema sanitario al collasso, terapie intensive sature, medici e infermieri allo stremo, spesso costretti a turni massacranti, in condizioni di totale emergenza. Abbiamo un problema strutturale che ancora minaccia il nostro sistema sanitario: la carenza di medici. Per far fronte a questa situazione, una delle soluzioni adottate è stata quella di chiedere aiuto all’estero. I professionisti in Italia, infatti, sono sempre meno e nei prossimi anni il loro numero continuerà a diminuire: un fenomeno che avrà ripercussioni negative sulla qualità dell’assistenza per i cittadini.
È così che, da oltre 8.000 chilometri di distanza, i medici e infermieri cubani, molti dei quali avevano già avuto esperienze in missioni umanitarie durante altre epidemie – come quella di Ebola in Africa -, sono arrivati per dare supporto al personale medico italiano. A portarli qui è stata la cosiddetta “diplomazia medica” cubana, una pratica attiva fin dagli anni ’60, che ha visto il Paese caraibico inviare i propri professionisti della salute in oltre sessanta nazioni del mondo, spesso nei momenti più critici.
Questo rapporto continua ancora oggi, con l’obiettivo di colmare l’insufficienza di medici in alcune regioni come la Calabria. Qui i doctores rimarranno fino al 2027, due anni in più del previsto, come ha stabilito uno degli articoli del decreto flussi di recente approvato in Senato. L’accordo sottoscritto dalla Regione prevede che la società cubana Comercializadora de Servicios Medicos Cubanos S.A. recluti medici a tempo determinato, per un contingente massimo di 497 unità.
Al momento sono 373 i professionisti distribuiti tra le cinque province calabresi. Uno di loro si chiama Roldàn Gonzales, 35 anni, fa parte del secondo contingente arrivato nel 2023 e dal 4 agosto di quell’anno lavora come intensivista all’ospedale di Vibo Valentia. «La mia specializzazione è terapia intensiva più emergenza, ho sempre lavorato in rianimazione, che per me è uno dei reparti più importanti. Qui siamo tre e mi trovo benissimo, soprattutto con un mio collega italiano e un altro cubano. La situazione della carenza di personale mi sembra un po’ migliorata: l’ospedale, anche se non molto grande, funziona bene» racconta Gonzales.
Quando parla, nonostante mischi ancora italiano e spagnolo, la passione con cui lavora è evidente: «In Italia si usa la stessa tecnologia che applichiamo a Cuba, con macchine di ventilazione, monitoraggio ermodinamico e gli stessi farmaci, anche se qualcuno ha un nome commerciale diverso». Ma non è quella la cosa più importante, perché «quando arriva un malato, soprattutto se in condizioni critiche, non solo ci vuole molta intelligenza nel gestire la situazione, ma penso sempre a metterci il cuore e la testa nell’assistere i parenti».
A legislazione vigente, i doctores potranno restare fino a dicembre 2027, ma la norma è prorogabile. «Se dopo il 2027 il presidente della Calabria e la popolazione avranno bisogno della mia presenza – ammette – noi rinnoveremo di nuovo il contratto, non c’è nessun problema. Tutti noi lo facciamo sempre per la popolazione e per la salute della Calabria».
Con tredici anni di esperienza e diverse missioni alle spalle, il medico ha già lavorato in Paesi come la Giamaica e il Venezuela: «Praticamente questa è la terza volta che esco da Cuba per prestare il mio servizio in altre parti del mondo». Ma quando gli chiediamo se sente di aver dovuto cambiare vita e abitudini, risponde: «Non è cambiato tanto perché faccio le stesse cose che facevo a Cuba. Lavoro tanto, perché questo è quello che mi piace fare davvero, continuo a studiare molto, esco a fare passeggiate».
Ovunque il lavoro lo porterà in futuro, la Calabria avrà sempre un posto speciale nel suo cuore: «Ti dico la verità, le persone calabresi, come i cubani, sono tanto calorosi e amabili. Anche la cultura è molto simile. Mi piace definirla la cultura del cuore», conclude al telefono con parole che mal nascondono un sorriso.